Martedì 9 maggio del 1950 a Parigi il presidente del Consiglio Georges Bidault, del democristiano Mouvement Républicain Populaire, Mrp, presiede una riunione di governo, la cui chiusura è prevista per le 16. Alle 18 al ministero degli Esteri, in Quai d’Orsay, è convocata la stampa per una inattesa comunicazione del ministro Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman, dello stesso partito di Bidault. Non sono in molti a sapere cos’abbia da raccontare Schuman, anche perché nell’agenda della riunione di gabinetto non figurano questioni di politica internazionale di particolare rilevanza. Tra i pochi informati l’amico e consigliere Jean Monnet, discrezione a prova di bomba.
Monnet ha convinto Schuman a rompere gli indugi rispetto al dibattito che nel dopoguerra ha reiteratamente coinvolto le diplomazie sui rapporti di tipo nuovo da instaurare tra le nazioni europee, dopo due guerre fratricide che, nella prima metà del secolo, hanno ucciso decine di milioni di persone. Nella cartella che ha portato in Consiglio dei ministri, Schuman ha un appunto che va in quella direzione, ma, da esperto e fine politico sa che deve muoversi con circospezione, se vuole che le idee di Monnet non incontrino ostacoli. Nel progetto è centrale il ruolo della Germania occidentale (quella orientale è sotto il controllo sovietico); a soli cinque anni dalla fine della guerra, molti sono i risentimenti antitedeschi nei popoli che hanno sofferto i crimini del nazismo.
Quella difficoltà può essere superata, pensa il ministro francese (che come si vedrà è anche un po’ tedesco), ma solo se Bonn accetta di salire a bordo del piano, i cui punti essenziali ha fatto segretamente pervenire al primo ministro tedesco Konrad Adenauer, democristiano anche lui, attraverso un fidato emissario. Adenauer acconsente al telefono proprio quel pomeriggio. Schuman può ora spifferare il piano a due ministri “complici” che siedono in Consiglio, il socialista René Pleven e il radicale René Mayer (ambedue saranno protagonisti della crescita delle istituzioni comuni europee), concordando come procedere. Il ministro degli Esteri si tiene in disparte nei lavori del Consiglio per non rischiare frizioni con nessun collega poi, quando si è prossimi al rompete le righe e la deconcentrazione la fa da padrona, con fare dimesso informa di voler mettere a parte la stampa di una sua idea riguardo a un’iniziativa da assumere con il vicino germanico, aperta ad altri eventuali volenterosi europei. Quando Bidault apre il giro degli intereventi, Mayer e Pleven si esprimo calorosamente a favore chiedendo ai colleghi semaforo verde su quell’eccellente passo che finalmente potrebbe smuovere l’estenuante dibattito sull’Europa. Bidault, conciliante con l’autorevole Schuman, non si oppone e l’idea passa, confortata dal fatto che in quelle stesse ore arriva da Bonn conferma dell’adesione della Bundesrepublik al Consiglio d’Europa, la prima istituzione europea postbellica, nata su ispirazione di Churchill.
Puntuale e in forma, Schuman legge nella sala dell’Orologio del ministero, a nome del governo, la dichiarazione che offre alla Germania, e a ogni paese europeo che lo vorrà, un progetto di amicizia e collaborazione che ha come funzione iniziale la messa in comune del carbone tedesco della Ruhr per la produzione dell’acciaio indispensabile alla ripartenza industriale della Francia e del vecchio continente. Il testo è breve e sostanzioso, nello stile del tecnocrate Jean Monnet (si era formato alla Blair Investment Bank e alla corte del magnate svedese Krueger), ma sin dalla prima frase, i presenti hanno la sensazione di trovarsi di fronte a una piattaforma politica che, partendo da aspetti produttivi e commerciali, intende offrire al vecchio continente una prospettiva concreta di pacificazione e benessere. Questa, ed è l’altro punto rilevante della dichiarazione, è messa al servizio della “pace mondiale”.
Schuman non fa giri di parole e a muso duro dice ai tanti nazionalisti che lo accerchiano in Francia (e che qualche stagione politica dopo porteranno il paese nel vicolo cieco e assassino della guerra d’Algeria e al tracollo della Repubblica): “L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra.” Con altrettanta fermezza redarguisce chi spinge per irrealistiche fughe in avanti: “L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.” Gradualismo sia, quindi.
Si è imposto il metodo funzionalista di Monnet: l’ideologia dell’egoismo nazionalista si batte con realizzazioni economiche concrete che convincano la gente sull’utilità dello stare insieme, cedendo pezzi di sovranità per fare di più e meglio a vantaggio di tutti: si accetti un’autorità al di sopra delle singole nazioni, le si cedano progressivamente funzioni operative e il resto verrà dalla “solidarietà di fatto”. Facile a dirsi: ma come, se guerre e distruzioni reciproche erano state per lunghi secoli il pane quotidiano della gente europea, e ora, come risultato della Seconda guerra, l’Europa era spaccata in due sottomessa a due potenze straniere, con il paese più rappresentativo, la Germania, spaccato e occupato?
Punto nodale di quella vicenda, almeno dalla guerra dei trent’anni del XVII secolo passando per le guerre napoleoniche e le due Mondiali del XX secolo, lo scontro tra Francia e Germania per il predominio nell’Europa centrale. Dice Schuman: “L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania”.

Ed ecco come, a questione di tanta contundenza politica (per non averla risolta, a soli vent’anni dalla fine della Prima guerra ne era scoppiata un’altra peggiore), intende soccorrere la prima misura funzionalista “su un punto limitato ma decisivo”, che Jean Monnet ha tirato fuori dal suo geniale cilindro, in attesa che negli anni successivi le condizioni politiche ne consentano altre: “Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei”.
La ricostruzione europea si basava in vasta parte sul rilancio della siderurgia (edilizia, automobili, navi, aerei, camion, armi, fabbriche e macchine utensili, utensili e macchine agricole, etc.), in un’epoca industriale ancora “pesante” (si pensi al ciclopico sforzo staliniano per l’industrializzazione dell’Unione Sovietica) e di carbone per i forni, in continente, a parte quello a buon mercato della Ruhr e quello più costoso del Belgio ce n’era pochino. La Francia chiede alla Germania di dare il suo carbone alla ripresa europea, affiancando sul lato industriale lo sforzo americano del piano Marshall: in cambio offre pace e ruolo paritario nell’edificazione dell’Europa della seconda metà del secolo, per superare insieme il pestifero ruolo degli stati nazione: “La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime”. Contrariamente alla Gran Bretagna che, immemore della lezione storica del suo lord Keynes alla fine della Prima guerra mondiale, vuole una Germania umiliata e indebitata, la Francia non si comporta da vincitrice in cerca di rivalsa: molto, e ci si tornerà, influisce la formazione ideale dei politici democristiani e socialisti che sono al governo.
Schuman vuole essere chiaro sul fatto che la sua sia una Dichiarazione politica e non l’anticipazione di un mero accordo commerciale e produttivo franco-tedesco: “La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile.” E insiste sulle conseguenze possibili per l’Europa: “Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.” In un passaggio della Dichiarazione, è sottolineata la condizione di pari dignità per tutti gli aderenti (“ … fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali,…”), irrinunciabile in un’organizzazione che “getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.”
Non basta, perché per limitare l’autorità sovranazionale che si andrà a creare, si prevedono strumenti giudiziari che risolvano eventuali contenziosi: “L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; …. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità.”
Occorre anche tranquillizzare il mondo post-bellico sugli scopi pacifici del progetto: “Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’ONU, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici.”
Mentre partono i primi dispacci d’agenzia e le redazioni dei quotidiani si mettono al lavoro per commentare la Dichiarazione Schuman, l’ambasciatore italiano Pietro Quaroni avverte il primo ministro De Gasperi della scelta del collega democristiano: passa un giorno e l’Italia dichiara la sua adesione ufficiale al progetto Ceca. A seguire, il trio BeNeLux, Belgio Olanda e Lussemburgo, in unione doganale dal 1 gennaio 1948, fa lo stesso. Il 3 giugno Belgio, Francia, Lussemburgo, Italia, Paesi Bassi e Germania sottoscrivono il piano Schuman.
Il 18 aprile 1951, a Parigi, è firmato dai Sei il trattato sulla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Primo presidente dell’Autorità sovranazionale è Jean Monnet. Il secondo sarà René Mayer. I sei firmatari, tanto per non lasciare dubbi su cosa stia accadendo, sottoscrivono anche una dichiarazione separata con forza di accordo internazionale,:
“By the signature of this Treaty, the participating Parties give proof of their determination to create the first supranational institution and that thus they are laying the true foundation of an organised Europe. This Europe remains open to all countries that are free to choose. We profoundly hope that other countries will join us in our common endeavour”.
Londra rilascia una nota ufficiale, per non essere stata consultata, nonostante la Ruhr sia zona occupata sotto controllo britannico. Washington tacita il Foreign Office, e nomina immediatamente un ambasciatore presso la Ceca.

Per capire la genesi del Piano Schuman, può servire un’occhiata alle biografie dei suoi autori.
Da buon nazionalista il rispettabile Charles de Gaulle, che pure nel primo dopoguerra si era avvalso della collaborazione di Jean Monnet (come avevano fatto un po’ tutte le democrazie, incluse quelle britannica e statunitense), gli attribuì l’obiettivo di voler creare delle “mostruosità sovranazionali”. E invece, quando riuniva nella soffitta dal pavimento scricchiolante in avenue Foch l’Action Committee for the United States of Europe, ovvero i rappresentanti dei partiti non comunisti di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Monnet, “già leggenda” come scriverà il saggista britannico Richard John Mayne che di Monnet fu consigliere in Ceca e poi assistente personale, puntava a dare all’Europa quanto lui aveva donato al mondo negli anni di guerra, se dobbiamo credere all’affermazione di Keynes sul fatto che con il suo metodo collaborativo e multilaterale “Monnet aveva ridotto di un anno la durata della Seconda guerra mondiale”.
Aveva cominciato durante la Prima guerra mondiale, consigliando al capo del governo René Viviani di promuovere il coordinamento delle risorse fra gli alleati. Fu vicesegretario generale della Società delle Nazioni, prima di rientrare nell’azienda di famiglia. Coerentemente, durante la guerra, è a Londra nel comitato interalleato per la distribuzione delle materie prime, e nel 1940 va a Washington a trattare gli aiuti necessari per consentire ai britannici e loro alleati di battere il nazismo. Roosevelt lo nota e lo prende come consigliere. Conierà per FDR il motto degli USA come “arsenale delle democrazie”, convincendolo a promanare il “Victory Program” del 1941. Rientrato in Europa, diventa membro del Comitato nazionale di liberazione, Cnl, nell’Algeria francese, esponendosi contro i nazionalisti colà attivi: “Non ci sarà mai pace in Europa se gli stati si ricostituiranno su una base di sovranità nazionale … (ciò) presuppone che gli stati d’Europa formino una federazione o una entità europea che ne faccia una comune unità”.
L’uomo nato tra le vigne di Cognac in Charente, fu decisivo nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 sarebbe stato reclutato dalla Nato come uno dei “tre saggi”. Il barone Robert Rothschild dirà di lui che non era “né un politico né un pubblico ufficiale, ma una categoria a parte”, confermando l’aurea cospiratoria e misteriosa che in molti gli attribuivano. Willy Brandt lo chiamerà sua “fonte di ispirazione” e Dean Acheson “uno dei più grandi francesi”; John Kennedy avrebbe detto che aveva “trasformato l’Europa con il potere di una idea” e il generale Chiang Kai-shek che era un mandarino frugale e confuciano (lo era). Lui si sarebbe autodefinito un “catalizzatore”, un “broker” che sapeva come mettere d’accordo gli stati, nulla di più.
Monnet, da buon cattolico anche se meno pio di Schuman (nel 2004 si è chiusa a Metz la fase diocesana del suo processo di beatificazione, e l’ex capo di governo è stato proclamato Servo di Dio), ebbe sempre in mente un’organizzazione sociale che superasse le storture degli stati nazione e puntasse all’”unità cristiana”, percorrendo il cammino intellettuale dei tanti che avevano indicato al mondo le opportunità di pace e sviluppo offerte dalle Federazioni regionali dei popoli e da quella mondiale delle nazioni. In quel modello gli aiuti del piano Marshalll non dovevano favorire questa o quella nazione europea, ma risollevare l’insieme del continente, e bisognava quindi evitare che ne traesse vantaggio la sola siderurgia germanica. Il necessario “programma concordato e coordinato” promosso da Washington che aveva fiducia in Monnet, insieme alla consapevolezza che occorreva limare unghie e denti dei riottosi nazionalismi europei, trovò espressione nell’Oece (non casualmente con sede a Parigi) e quindi nella Ceca: il funzionalismo dell’industria e del commercio veniva messo al servizio della diplomazia multilaterale e del progetto di Federazione, superando le panie della politica dei teatrini nazionali dove primeggiano litigiosi e bottegai.
Nella sconfinata fiducia nel suo metodo, Monnet arriverà a dire nel 1952: “Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e una finalità meramente economica.” Quella sorta di illuminismo autoritario e paternalistico aveva le sue ragioni, come spiega lo stesso Monnet: Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino, o quello che credeva essere il suo destino, applicando le proprie regole.” Monnet condivideva con il tedesco Maximilian Weber la visione dello stato moderno come “opificio di servizi” al cittadino e all’umanità, per questo si batteva per una “amministrazione comune” capace di creare una “unità dal basso” tale da convincere progressivamente i popoli ad aderirvi. Occorreva una doppia fase: nella prima il pensiero creativo delle élite dove “la riflessione non può essere separata dall’azione”, nella seconda “gli appelli all’opinione pubblica” facendo in modo che il modello fosse ad essa accetto “grazie alle abitudini che finirebbero col prevalere”.
Altiero Spinelli, alfiere del metodo “costituente” contro quello “gradualista”, dirà che Monnet aveva avuto il merito di aver costruito l’Europa e la grande responsabilità di averla costruita male. Era in buona compagnia: raccontano i presenti che, mentre si spegneva a Rambouillet tre giorni dopo l’entrata in vigore del Sistema monetario europeo, Monnet abbia confessato “Si c’était à refaire, je commencerais par la culture” (Se andasse rifatto, comincerei dalla cultura). Pur concedendogli la buona fede, difficile immaginare che Monnet non sapesse che la sua impresa sarebbe stata ancora più difficile. La “tecnocrazia” e l’”élitismo” che gli avevano consentito il varo della Ceca, nei processi riguardanti cultura e politica non gli sarebbero stati consentiti. E difatti, a settant’anni di distanza sono i processi culturali e politici nell’attuale Unione sono al palo. Solo in economia e in altre attività altamente tecniche, le personalità indipendenti scelte per competenza, così care al pensiero di Monnet, sono talvolta tollerate dalla politica politicante. E comunque la politica, decise di ospitare le sue ceneri nel Pantheon degli “Immortali” di Francia, a Parigi.
Non era certamente un “politico politicante” Schuman, primo ministro nel 1947-1948, e agli Esteri dal 1948 al 1952, poi primo presidente dell’Assemblea Parlamentare Europea, dal 1958 al 1960. La sua visione politica e religiosa dell’Europa echeggiava anche le posizioni che in quegli anni esprimeva a Roma Pio XII. Ricercava un’”anima” con la quale vivificare il continente prostrato dalla guerra e sotto minaccia comunista: “L’Europa vivrà e si salverà nella misura in cui avrà coscienza di se stessa e delle sue responsabilità, quando essa farà ritorno ai principi cristiani di solidarietà e fraternità”. Alla guida del governo e come ministro, era riuscito a emarginare gaullisti e comunisti, nazionalisti e antitedeschi la cui ambizione era persino di tosare le frontiere comuni. Si coalizzeranno poco dopo per abbattere il progetto di difesa comune europea.
Come si legge tra le righe della sua Dichiarazione, il piano era ispirato anche dal precedente del socialista Aristide Briand, sostenitore della League of Nations, avverso (come Keynes) alle dure condizioni imposte al popolo tedesco dopo la Prima guerra mondiale, celebre per il trattato con gli Stati Uniti che bandiva la guerra e che gli valse il premio Nobel per la pace nel 1926.
Schuman si considerava un europeo totale: nato in Lussemburgo da padre lorenese di nascita francese ma di lingua e cittadinanza tedesca (la Lorena era regione di frontiera, ritagliata e spostata dai trattati di pace franco-tedeschi) e da madre lussemburghese. Studiò da ragazzo tra Granducato e Metz, oggi francese ma all’epoca tedesca. Fu universitario in legge tra Bonn, Berlino, Monaco di Baviera e Strasburgo, aprendo il suo studio professionale a Metz nel 1912. Farà politica da cristiano democratico, occupando, nella Seconda guerra, il posto di sottosegretario per i rifugiati: nonostante abbia votato i pieni poteri al collaborazionista Pétain, viene arrestato dalla Gestapo per l’attività a favore dei rifugiati in Lorena e imprigionato. Evaso nel 1942, passa nella Francia liberata. Torna in parlamento nel 1946 e riveste l’ultimo incarico governativo come ministro della giustizia, tra il 1955 e il gennaio 1956, poi abbandona non volendo confluire nel nazionalismo gaullista, né aderire al tentativo centrista di Jean Lecanuet. Quando lascia il Parlamento Europeo, al vertice del quale era stato eletto all’unanimità, viene proclamato dall’assemblea “padre dell’Europa”. Nel suo nome ogni anno, per decisione del Consiglio di Milano dei capi di stato e di governo del 1985 dell’allora Comunità a dieci, il 9 maggio si celebra la giornata dell’Europa.
Non può negarsi che la pagina di storia qui richiamata sia pervasa di una sorta di messianismo laico, un po’ come capita nelle rievocazioni degli inizi della storia degli Stati Uniti. Un giornalista statunitense contemporaneo di Schuman e Monnet, Theodore White, raccontando ai suoi compatrioti quanto stava accadendo nel vecchio continente, scriveva: “Se un’Europa unita verrà realizzata nel nostro tempo, allora Jean Monnet sarà considerato dalle generazioni a venire come il suo santo patrono”. Aggiungendo: “Questo gigantesco piccolo uomo, mai eletto da nessuna istituzione, è la figura pubblica più misteriosa dei tempi moderni”. Con qualche esagerazione, le cose stavano così, grazie anche alla simbiosi morale e religiosa, oltre che politica, con Schuman su un concetto che Monnet scriverà nelle memorie e che molti, non solo tra i nazionalpopulisti di oggi, non vogliono leggere: “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”.