E ora si Salvi(ni) chi può. Sono trascorse poco più di 48 ore, da quando il nuovo governo gialloverde è diventato operativo, e già il suo ministro degli Interni, il leader della Lega Matteo Salvini, ha fugato ogni dubbio sull’eventualità che la sua nuova prestigiosa carica al Viminale lo inducesse a sostituire con una maggiore responsabilità il suo atteggiamento tipicamente incendiario in tema di immigrazione. Il fatto che ciò non sia accaduto, intendiamoci, per chi lo ha votato sarà pure rassicurante: il potere – diranno i suoi sostenitori – non l’ha cambiato. Certo, ora che è ministro dell’Interno, Salvini dovrà imparare (a spese dell’Italia) che certe azioni (e parole) hanno delle conseguenze. Perlomeno sul piano diplomatico, se proprio ci ostiniamo a non guardare quello etico e umano.
Così, quando durante la sua visita a Pozzallo ha confermato pari pari tutte le sue promesse della campagna elettorale, accusando le ong in primis di essere “vice scafisti” e la Tunisia di essere “un Paese libero e democratico che non sta esportando gentiluomini ma spesso e volentieri esporta galeotti”, Tunisi ha convocato l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara. Attenzione: non era la prima volta che in Italia si sottolineava il fatto che, tra i migranti (economici) che provengono dal Paese nordafricano, si potessero nascondere anche ex detenuti, usciti di prigione a seguito di provvedimenti di grazia o di indulti, o addirittura foreign fighters. Al punto che, anche in passato, l’ambasciata italiana a Tripoli aveva sentito il bisogno di ridimensionare l’allarme, non del tutto peregrino, ma come al solito ampiamente strumentalizzato, spiegando come «ogni anno, per la festa della fine del Ramadan, il governo libera i detenuti per i reati minori. Stiamo parlando perlopiù di piccoli consumatori di droga. Ed è sempre successo. Quindi non può essere ritenuto un elemento significativo per spiegare l’aumento delle partenze del 2017».
Ovvio che, tuttavia, quando un’accusa del genere giunge non dal capo di un partito di destra, ma da un ministro dell’Interno, assume una rilevanza del tutto diversa, che può aprire anche conseguenze diplomatiche rilevanti. Senza contare, poi, il fatto che l’uscita di Salvini sembra essere stata ispirata “dall’alto”. I lettori attenti ricorderanno certamente le analoghe dichiarazioni del presidente americano Donald Trump, che, del Messico, disse: “Quando ci mandano qui le persone, non scelgono certo il meglio… Portano la droga, il crimine, gli stupratori”. Uno stile, come si vede, di moda da un capo all’altro dell’Oceano.
L’inizio, insomma, è stato col botto. Certo: sono passati anni da quando Salvini canticchiava quanto fossero maleodoranti i napoletani, e negli ultimi tempi sembra aver a tratti assunto atteggiamenti più moderati. Per esempio, quando ha ricordato, anche in queste ore, che gli immigrati regolari sono suoi fratelli e suoi figli, e non avranno nulla da temere. Ci mancherebbe, viene da dire: nessuna democrazia sana potrebbe mai digerire un ministro dell’Interno apertamente propenso all’apartheid. È chiaro e cristallino, dunque, che il nodo sarà la gestione dell’immigrazione illegale. Quell’immigrazione che Salvini, con un sapientissimo accorgimento retorico, non manca di definire un’invasione, salvo dimenticarsi che la legge che attualmente regola l’immigrazione in Italia – chiaramente inefficace, perché di fatto alimenta e incancrenisce lo statuto di clandestinità dei migranti stessi – è proprio la Bossi-Fini. Resta sicuramente da vedere se il suo impegno di espellere 500mila irregolari sia poi realizzabile. Visto che, per farlo, servono, oltre che risorse ingenti di cui siamo tradizionalmente a corto, anche degli accordi bilaterali con i Paesi di origine. Accordi da negoziare – bisognerà ricordarlo a Salvini – con la necessaria diplomazia, non certo accusando i nostri interlocutori di mandarci i galeotti. Fortunatamente, la Tunisia è tra i quattro Stati con cui già abbiamo accordi di rimpatrio, insieme a Egitto, Marocco e Nigeria. Ma, ad oggi, all’appello, manca tutta l’Africa subsahariana, da cui, peraltro, proviene il grosso dei flussi.
Ad ogni modo, non si poteva certo pensare che simili affermazioni da parte di un ministro dell’Interno europeo rimanessero prive di reazioni. E oltre alla Tunisia, noi della Voce abbiamo cercato di capire anche la risposta delle Nazioni Unite, interpellando, sulle dure critiche salviniane alle organizzazioni non governative, direttamente il portavoce del Segretario Generale Stéphane Dujarric, che già, qualche giorno fa, si era mostrato molto diplomatico a una nostra domanda sul programma del nuovo Governo a proposito di immigrazione. Questa volta, Durrjac ha parlato più chiaramente: “Il lavoro delle Ong nel salvare e proteggere le vite dei rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo in viaggi molto pericolosi è davvero importante, cruciale per la salvezza di queste persone, e tutto il sistema delle Nazioni Unite lavora molto con tali organizzazioni”, ha detto. “Sul tavolo c’è una questione più grande, e riguarda il modo in cui possiamo gestire questi movimenti di popolazione, i più grandi movimenti di massa dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, ed è esattamente il punto principale del lavoro fatto anche questa settimana a New York sul Global Migration Compact (…)”, ha spiegato. Un lavoro che, ha sottolineato, mette al centro “la salvezza e la dignità degli esseri umani, pur rispettando sempre la sovranità degli Stati”. (Guarda video sotto dal minuto 15:55).
Altro che “vicescafisti”, insomma: per le Nazioni Unite, le Ong restano fondamentali nel salvare vite umane. Per carità: sugli attacchi a queste organizzazioni, Salvini era stato addirittura anticipato dall’attuale alleato, il grillino Luigi Di Maio, che le aveva definite “taxi del mare” a seguito delle scoppiettanti affermazioni del pm Carmelo Zuccaro, sulla cui inchiesta a proposito dei presunti legami tra Ong e scafisti, peraltro, non si è poi saputo più nulla. Non a caso, però, nelle scorse ore Salvini aveva annunciato di volerlo incontrare, per discutere di come fermare il business.
Intendiamoci: la questione è molto delicata, perché viaggia su più binari: quello del diritto del mare e del diritto internazionale, quello della politica europea e di quella interna. Perché, se sulla priorità del salvataggio di vite umane non c’è proprio da discutere, si potrebbe invece disquisire su quale sia il porto sicuro più vicino dove lasciare i migranti salvati dal mare. Certamente non può essere la Libia, nonostante l’accordo tra Roma e Tripoli legittimi, di fatto, il respingimento, nel Paese dei “campi lager”, dei migranti intercettati e recuperati dalla Guardia Costiera locale (che diverse inchieste svelarono in combutta con i trafficanti, ma di questo – guarda un po’ – nessuno si scandalizza più di tanto). Sul fatto, invece, che quel porto sia l’Italia, è oggetto di discussione: e spesso si cita, a favore di questa ipotesi, la consuetudine e il fatto che le operazioni di salvataggio siano spesso coordinate dalla Guardia Costiera italiana.
A tutto ciò si aggiunga una chiosa: che ora la sinistra si scandalizzi dell’atteggiamento di Salvini, è piuttosto paradossale, visto l’accordo con la Libia – definito dall’Alto Rappresentante per i Diritti Umani al-Hussein “inumano” – che il “loro” Minniti, ministro dell’Interno tanto osannato, ha negoziato lo scorso anno.
È ovvio, insomma, che alla base di tutto ci sia un problema innegabile, e che riguarda l’eterna solitudine dell’Italia nell’affrontare una crisi migratoria che riguarda un Continente intero. E se venisse mai appurato un qualche contatto, a scopo di lucro, tra una qualche ong e gli scafisti, quella ong dovrebbe assumersi le sue responsabilità nelle sedi competenti. Ma neppure questo preambolo può giustificare, perlomeno agli occhi di chi scrive, l’atteggiamento incendiario e “trumpiano” di Salvini, così portato alla semplificazione, alla strumentalizzazione, alla generalizzazione di una questione che andrebbe affrontata con le dovute cautele, e il dovuto riguardo per i diritti umani. Soprattutto, ora che il leader del Carroccio siede al Viminale. E ha sulle spalle la responsabilità di garantire l’ordine e l’equilibrio sociale di un Paese intero. Ordine ed equilibrio che non si salvaguardano di certo spargendo litri e litri di benzina sul fuoco.