La minaccia era già risuonata forte e chiara nella maestosa sala del Palazzo di Vetro dove si riunisce l’Assemblea Generale, durante la sessione d’emergenza, caldeggiata da Yemen e Turchia, convocata la scorsa settimana sull’eterna questione israelopalestinese. In quell’occasione, l’ambasciatrice USA Nikki Haley aveva dimostrato tutta la sua indignazione per la risoluzione, già proposta in Consiglio di Sicurezza e cassata dal veto statunitense, in risposta alla decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, spostando nella Città Santa l’ambasciata americana che da sempre ha sede a Tel Aviv. Una risoluzione poi passata a larga maggioranza, con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astenuti. “In quanto nazione sovrana”, aveva osservato la Haley davanti agli Stati membri, “abbiamo il diritto di scegliere la location della nostra ambasciata”. Ma soprattutto, aveva eloquentemente aggiunto, riferendosi al voto di lì a poco effettuato, “ce ne ricorderemo quando alcuni di voi verranno a chiederci più soldi”.
Detto, fatto. Pochi giorni dopo, è giunto l’annuncio, da parte del Governo statunitense, di un significativo taglio di più di 285 milioni di dollari sul contributo previsto dagli States al budget 2018-19 delle Nazioni Unite, a cui Washington concorre per il 22% del bilancio operativo, e per il 25,8% sul costo delle operazioni di peacekeeping. “Non lasceremo più che la generosità del popolo americano venga sfruttata”, ha dichiarato l’ambasciatrice Haley, aggiungendo che “l’inefficienza e la spesa eccessiva dell’organizzazione erano già ben noti”.
In effetti, l’amministrazione Trump aveva fin da subito annunciato di voler abbattere quell’eccesso di burocrazia che rende le Nazioni Unite un’istituzione mastodontica, poco agile e spesso inefficiente. Problematiche che, in realtà, lo stesso segretario generale Antonio Guterres ha dimostrato di riconoscere. E per risolvere tali innegabili criticità, si rende naturalmente necessaria una imponente e attenta opera di riforma, che forse, però, dovrebbe precedere, e non seguire, un drammatico taglio del budget a disposizione. Budget che, dopo la decisione di Washington, per il prossimo anno è del 5% inferiore rispetto a quello 2016-17.
Se quindi la necessità di riformare l’organizzazione è ampiamente riconosciuta, della decisione degli States va sottolineato, d’altra parte, il timing niente affatto casuale – a pochi giorni, appunto, dallo scontro in Consiglio di Sicurezza e in Assemblea Generale su Gerusalemme -, ma anche le possibili conseguenze. Perché è vero: l’ONU ha indubbiamente grossi problemi di agilità e, nei suoi 70 anni di vita, ha inanellato una lunga serie di fallimenti; eppure, in tante occasioni, senza il suo intervento, le diverse crisi geopolitiche e umanitarie a cui abbiamo assistito avrebbero potuto seguire un’evoluzione ancora più distruttiva. Cosa ne sarebbe stato, senza le Nazioni Unite, dei tanti profughi nel mondo, dei milioni di persone intrappolati nelle drammatiche crisi umanitarie in Sudan, Libano, Somalia, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, solo per citarne qualcuna? Quale sarebbe stato il destino delle popolazioni colpite da Ebola nell’Africa Occidentale? Quale, quello delle tante popolazioni africane attanagliate da insicurezza alimentare?
Certo, non si può dire che i risultati ottenuti finora siano i migliori possibili. Tutt’altro. Se in Stati piccoli con popolazioni limitate è più facile che le missioni di pace abbiano successo, altro si può dire per le crisi più imponenti, che coinvolgono aree più ampie e scenari più complessi. In Darfur, in Sudan o in Sud Sudan, le operazioni delle Nazioni Unite hanno dovuto incontrato numerosi ostacoli, e spesso il Consiglio di Sicurezza è stato a sua volta complice degli scarsi risultati ottenuti a causa dell’inadeguatezza delle risorse militari e umanitarie messe a disposizione sul campo. E gli stessi fondi stanziati per l’altissimo numero di persone che vivono in insicurezza alimentare, di recente valutato dalle Nazioni Unite intorno ai 20 milioni, restano ancora innegabilmente insufficienti. Ciononostante, senza quei contributi, quelle già gravissime crisi si sarebbero trasformate, molto probabilmente, in vere e proprie ecatombi.
E in effetti, gli Stati membri – USA in primis – dovrebbero porsi un’altra domanda: sicuri che, senza le Nazioni Unite, il “risparmio” – in termini di rapporto tra risorse spese e risultati conseguiti – sarebbe effettivo? Se gli Stati chiamati a intervenire nelle principali crisi geopolitiche in corso agissero costantemente fuori dal cappello del Palazzo di Vetro, la loro azione sarebbe davvero più efficace e meno dispendiosa? Se, come sostenevano gli antichi, la storia è maestra di vita, la risposta dev’essere certamente negativa. Pensiamo, a titolo d’esempio, alle missioni statunitensi in Afghanistan e in Iraq, entrambe dispendiosissime e obiettivamente inefficaci. Secondo un recente studio condotto dal Watson Institute for International and Public Affairs e dalla Brown University, dal 2001 a questa parte le missioni “anti-terrorismo” sarebbero costate agli USA molto di più dei 1500 miliardi dichiarati ufficialmente dal Dipartimento della Difesa: la cifra reale, stando a questa ricerca, si aggirerebbe invece intorno ai 5600 miliardi di dollari. Le operazioni di combattimento dal 2001 “sono state pagate pesantemente con i prestiti, una delle ragioni per cui gli Stati Uniti è passato dall’eccedenza di bilancio ai disavanzi dopo il 2001 “, ha spiegato uno degli autori dello studio, Neta Crawford.
Soldi che, peraltro, sono andati ad alimentare il mastodontico business dell’industria della guerra a stelle e strisce, ma, d’altra parte, non sembrano essere serviti a raggiungere l’obiettivo prefissato all’indomani dell’11 settembre, o quando, due anni più tardi, l’allora presidente George W. Bush, nel suo discorso ufficiale alla nazione, spiegò agli americani l’impellenza di abbattere il “terribile dittatore” Saddam Hussein, che minacciava il mondo con le sue “armi di distruzione di massa”. Armi che, ma questa è storia, peraltro non furono mai trovate. In compenso, se in Afghanistan i talebani non sono mai stati sconfitti come ci si augurò dopo l’11 settembre, l’Iraq, dopo la caduta di Saddam, è tornato ad essere un focolaio di instabilità e un terreno fertile per l’attecchire del fondamentalismo islamico. Una guerra al terrorismo, insomma, che, a suon di dollaroni, ha finito per spargere nuove scintille di jihadismo nel Medio Oriente, oltre che a rimpolpare i conti del ricchissimo business americano degli armamenti. Una tentazione irresistibile, dalla quale non si sottrae neppure l’Italia.
In tale scenario, e ferma restando la necessità di una riforma che le renda più efficienti, prima ancora che meno dispendiose, siamo certi che il vero problema, il più grande scandalo, il maggiore spreco sia rappresentato dalle Nazioni Unite in se stesse? Siamo sicuri che il budget che Donald Trump tanto desidera tagliare sia davvero così spropositato in relazione alla missione globale che, pur in mezzo a tanti ostacoli ed evidenti difficoltà, da 70 anni a questa parte anima l’organizzazione? Domande alla quali si potrebbe forse rispondere citando quanto Papa Francesco, in visita all’Assemblea Generale, osservò saggiamente due anni fa: “È certo che sono ancora molti i gravi problemi non risolti, ma è anche evidente che se fosse mancata tutta questa attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità”.