Il Consiglio di Sicurezza ONU, guidato questo mese dalla missione italiana dell’ambasciatore Sebastiano Cardi, ha approvato la risoluzione 2385 che impegna gli Stati membri al rinnovo del comune regime di sanzioni contro Somalia ed Eritrea, e delle attività del Monitoring Group attivo per vigilare sul loro rispetto nei due Paesi del Corno d’Africa. Una votazione che ha visto la maggioranza dei membri del Consiglio schierati per il sì e 4 astensioni, tra cui quelle di Russia e Egitto, i cui Rappresentanti hanno successivamente esposto i propri dubbi in particolare sull’equità e sull’efficacia delle sanzioni approvate contro l’Eritrea. Che sì, è da 25 anni in balia del sanguinario regime di Isaias Afeworki, ma anche di una povertà diffusa e di una mancanza di prospettive che le restrizioni della comunità internazionale non possono far altro che peggiorare.
L’Eritrea in particolare e il Corno d’Africa in generale sono in effetti tra i territori da tempo osservati speciali dalle Nazioni Unite, per via della delicatissima situazione politica, ma anche sociale e umanitaria in corso. All’inizio di novembre, i giornali di tutto il mondo hanno parlato della rarissima protesta di studenti scoppiata nella capitale Asmara, sfociata in scontri molto duri e diverse decine di morti e feriti. A far scattare la protesta, perlomeno secondo le cronache, la decisione del Governo di prendere sotto controllo con la forza la scuola di una comunità musulmana, arrestando una quarantina di persone e dando il via ai disordini. In Eritrea, dove metà della popolazione è di fede islamica, la legge ammette le scuole religiose, ma vieta il loro coinvolgimento in politica.
Al di là dell’episodio in sé, è risaputo che il rispetto dei diritti umani, nel Paese, è costantemente bistrattato dal regime, circostanza comprensibilmente all’origine del consistente flusso di migranti eritrei che tentano di arrivare in Europa e che, se superano indenni il Mediterraneo, provano a fare richiesta d’asilo per restarci. Nel 2016, una Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite ha rilevato, nelle “pratiche totalitarie” del Governo e nella totale indifferenza al ruolo della legge, la più palese manifestazione del disprezzo, da parte del regime, delle libertà fondamentali dei propri cittadini. Migliaia di eritrei ogni mese fuggono per evitare il “servizio nazionale”, reclutamento che dura indefinitamente. La popolazione è anche soggetta ad arresti arbitrari e subisce torture durante la detenzione. Non ci sono elezioni nazionali, non c’è legge, né libertà religiosa, non vi sono media indipendenti, né indipendenti organizzazioni non governative dal 2001 a questa parte.
La situazione, insomma, è indiscutibilmente grave, ed è ulteriormente peggiorata lo scorso giugno, quando, sulla scia della crisi del Golfo tra Arabia Saudita e Qatar, ha ripreso a sanguinare la ferita del conflitto tra Eritrea e Gibuti, tra i quali esisteva una contesa territoriale da tempo, e una guerra in corso dal 2008. Nel 2010, tuttavia, il Qatar aveva inviato al confine dei due Paesi un contingente di peacekeeper, ritirato dopo le frizioni con l’Arabia Saudita. Così, le truppe di Asmara si sono immediatamente mobilitate contro quelle del Gibuti, che hanno subito una dozzina di morti e feriti.
Eppure, in questo quadro, restano forse legittime le preoccupazioni di chi ritiene che un ulteriore rinnovo delle sanzioni all’Eritrea, sanzioni “a pacchetto unico” con quelle contro alla Somalia e che, fino ad ora, si sono rivelate poco efficaci in vista dello scioglimento della crisi, possa pesare più che altro sulle già difficili condizioni umanitarie della popolazione. Anche perché la discussione sulla loro proroga è stata preceduta dal report di 60 pagine del Monitoring Group attivo in Somalia e Eritrea, che, per quanto riguarda quest’ultima, è giunto a conclusioni che avrebbero potuto far pensare, almeno in astratto, a una decisione diversa da parte del Consiglio di Sicurezza.
Il Gruppo ha infatti sì rimarcato come l’Eritrea si sia dimostrata poco collaborativa, rifiutando di acconsentire al suo ingresso nel Paese, ma ha anche concluso di non poter provare con sufficiente evidenza le accuse che gli Stati membri, in prima fila gli Stati Uniti, hanno rivolto all’Eritrea di sostenere e supportare il gruppo terroristico Al-Shabaab. “Dato che il Monitoring Group non è stato in grado di trovare evidenze conclusive del supporto eritreo ad Al-Shabaab in Somalia, il Gruppo raccomanda al Consiglio di Sicurezza di considerare di separare il regime di sanzioni per Eritrea e Somalia”, si legge nel report. Un messaggio chiaro, certamente colto dai membri del Consiglio di Sicurezza che però, ad ampia maggioranza, hanno deciso di prolungare le iniziative contro l’Eritrea. Nonostante il Paese si fosse rivolto, lo scorso settembre, all’Assemblea Generale ONU con queste parole: “L’Eritrea è convinta che il suo percorso politico, economico, sociale e diplomatico sarebbe più piano e semplice se gli ostacoli esterni messi sul suo cammino venissero rimossi”. Ma la questione dura da molto più tempo: almeno da quando, nel 2009, il Consiglio di Sicurezza, su iniziativa americana, decise di sanzionare il Paese (risoluzione 1970), con l’accusa, fin da allora, di sostenere i fondamentalisti somali di Al Shaabab e di non risolvere la disputa di confine con il Gibuti.
Il pacchetto ha dunque previsto l’embargo sulla vendita di armi e di qualsiasi equipaggiamento militare e il blocco delle risorse finanziarie dell’Eritrea all’estero. Il 26 agosto 2016, la Missione di Asmara all’ONU inviò una lettera al Consiglio di Sicurezza per chiedere nuovamente l’annullamento delle sanzioni, chiarendo la propria posizione. In particolare, l’Eritrea respinse le accuse di “mancanza di cooperazione” con il Monitoring Group, ricordando i 15 incontri, le numerose videoconferenze e il constante dialogo con il gruppo di monitoraggio, dal suo insediamento fino a quel momento. In merito alla crisi del Gibuti, che pure non era tornata ai picchi di tensione registratisi negli ultimi mesi, Asmara rivendicò la chiusura della questione spesso imputatale dalle Nazioni Unite, che riguardava la liberazione dei prigionieri. Una questione, spiegò allora l’Eritrea, risolta definitivamente nel marzo precedente, come confermato dalla lettera indirizzata alla commissione stessa dall’emiro del Qatar. In merito, invece, alle accuse di sostegno del fondamentalismo somalo, l’Eritrea ha sempre negato qualsiasi imputazione, e gli stessi report del Monitoring Group non hanno mai trovato prove che dimostrassero un suo coinvolgimento.
Rispetto al 2016, dunque, al netto della questione terrorismo rimasta invariata, se non migliorata a favore dell’Eritrea, ad essere progredita è la crisi con il Gibuti. Ma, come si vede, già prima degli ultimi sviluppi il Consiglio di Sicurezza non si è mostrato disposto a ripensare al regime delle sanzioni. Che la questione non sia così lapariana lo dimostra non soltanto il report del Monitoring Group, ma anche l’ex ambasciatore e già assistente segretario di Stato per gli Affari africani Herman Cohen, che lo scorso settembre, durante il mese di presidenza dell’Etiopia, sostenne che quest’ultima, insieme agli Stati Uniti, avrebbe dovuto sponsorizzare presso il Consiglio di Sicurezza una risoluzione finalizzata a togliere le sanzioni imposte all’Eritrea, visto che, osservò, la ragione principale della loro imposizione – il presunto supporto di Asmara ad Al-Shabaab – non era stato ancora provato.

Non stupisce più di tanto, tuttavia, la posizione dell’Etiopia. Dall’epoca dell’indipendenza dell’Eritrea, staccatasi nel 1993 da Addis Abeba, i rapporti sono stati sempre tesi. Le origini dell’irrisolta disputa, che continua a segnare le relazioni bilaterali, risalgono al 6 maggio 1998, quando, fra i due Paesi, esplose un conflitto armato che causò almeno 70.000 vittime e centinaia di migliaia di espulsi e sfollati. Gli Accordi di Algeri del 2000 posero fine al conflitto, ma i due Stati continuano ad accusarsi reciprocamente di non aver rispettato le intese. In particolare, tra il 2015 e il 2016 l’Etiopia imputò all’Eritrea il supporto di gruppi armati anti-governativi, circostanza in questo caso confermata dal Monitoring Group, mentre la parallela ripresa delle ostilità al confine dei due Paesi ha fatto sì che Asmara accusasse Addis Abeba di indebita occupazione del suo territorio sovrano.
Dal canto loro, gli Stati Uniti non si sono praticamente mai mossi dalla posizione assunta nel 2009, quando furono promotori della prima risoluzione sanzionatoria nei confronti dell’Eritrea. E in queste ore il Consiglio di Sicurezza, che pure non si è mostrato compatto sulla questione, ha confermato di voler seguire la linea a stelle e strisce. Il Rappresentante dell’Egitto, – tradizionale alleato dell’Eritrea –, ha però dichiarato che si sarebbe augurato, dalla nuova risoluzione, una maggior considerazione delle conclusioni del Monitoring Group sulla questione terrorismo, e di considerare le sanzioni un provvedimento del tutto temporaneo, atto a consentire al Consiglio di Sicurezza di intervenire politicamente con mezzi più efficaci, e soprattutto da ripensare e rivedere nel corso del tempo. Linea, ça va sans dire, perfettamente sposata dalla Russia.
“Le cose stanno andando nella giusta direzione, ma troppo lentamente per poter decidere di togliere le sanzioni”, ha rimarcato invece il rappresentante permanente del Regno Unito Matthew Rycroft. L’ambasciatore Sebastiano Cardi ha invece sottolineato nel suo intervento l’introduzione di consistenti modifiche nel testo della risoluzione, che riflettono gli ultimi sviluppi. “Il Consiglio di Sicurezza riconosce – per la prima volta nella parte operativa della risoluzione – che non esistono evidenze conclusive del presunto sostengo da parte dell’Eritrea ad Al-Shabaab, come il Monitoring Group dichiara da 4 anni”. Tuttavia, ha sottolineato, il “Consiglio di Sicurezza si è impegnato a rinnovare le sanzioni sull’Eritrea, a partire dal prossimo semestre. Entro quella scadenza, l’Eritrea”, ha ammonito Cardi, “dovrebbe favorire la propria cooperazione con la Commissione sulle Sanzioni, in particolare facilitando la visita del Capo della Commissione nel Paese”. Cardi ha infine chiosato: “Le sanzioni sono uno strumento, non un fine. Come ogni strumento, devono essere rivalutate laddove le circostanze lo richiedano”. Eppure, ad oggi, dopo l’ennesimo rinnovo, al di là dello “strumento” si fatica ancora a intravvedere quella tanto vagheggiata “fine”.