Anche se è impossibile proporre numeri certi, si ritiene che la diaspora armena arrivi a tre, quattro milioni. Sono donne e uomini costretti a disperdersi un secolo fa perché, cristiani, vivevano in territorio ostile, abitato per lo più da ottomani musulmani e turcofoni. Oggi che l’Armenia è nuovamente stato sovrano e riconosciuto, benché con popolazione inferiore a quella degli armeni sparsi nel mondo, chiede giustizia. La rivendicazione interpella ogni essere umano: solo l’acquisizione della verità consente, con il riconoscimento della colpa, il perdono e la riconciliazione. E la non reiterazione. Per questo il negazionismo di Ankara è un errore, anche se se ne possono comprendere le ragioni. Erdogan afferma che la verità storica è un’altra: la racconti.
A noi risulta che, spartiti tra impero ottomano e Russia zarista, gli armeni hanno i primi importanti moti insurrezionali a difesa dell’identità nel 1880: la conta delle vittime nella zona ottomana dà 330.000 morti. Quando i giovani turchi vanno al governo, nel 1908, non sono certo da meno dei predecessori. Già l’anno dopo, in Cilicia, massacrano 30.000 armeni. L’eliminazione sistematica è quella che si avvia nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 con la cattura delle élite armene di Costantinopoli, e fa 1 milione e mezzo di vittime su una popolazione armena che, nell’intero impero, non supera i 2 milioni e mezzo.
Se questi sono i numeri, ha ragione Erdogan: non si tratta di genocidio. Si tratta di una quasi “soluzione finale”, simile a quella che dieci anni dopo Hitler avrebbe teorizzato in Mein Kampf. Non è casuale che il personaggio chiave dell’azione, Enver Pasha, sia l’uomo che, come ministro della Guerra, porta l’impero ottomano a battersi, nel Primo conflitto mondiale, a fianco della Germania guglielmina, dove alitavano i miasmi del nazionalismo prussiano, bellicoso e razzista. In Germania troverà rifugio nel 1918, quando in patria gli imputeranno l’alleanza con Berlino.
Enver teme che gli armeni, istigati dai francesi, complottino con i russi. La pulizia etnica, se non il genocidio, inizia coi militi armeni arruolati sotto bandiera ottomana, poi, in aprile 1915, tocca ai civili. Non passa un mese e la politica internazionale condanna la carneficina, usando per la prima volta in un documento ufficiale l’espressione “crimini contro l’umanità”. La dichiarazione anglo-franco-russa del 28 maggio afferma: “tutti i membri del governo turco saranno ritenuti responsabili congiuntamente agli agenti implicati nei massacri” in quanto autori di crimini contro “l’umanità e la civiltà”. Tanto più odioso e condannabile quel crimine, in quanto perpetrato non contro nemici ma contro cittadini turchi a tutti gli effetti: il peggiore tra i casi previsti dai delicta juris gentium (delitti contro le “leggi del genere umano”, v. preambolo alla Convenzione dell’Aja del 1907).
Enver si sarebbe messo a disposizione anche di Lenin ma, riconvertito al sogno panturco in Asia centrale, sarebbe stato ucciso in combattimento nella Repubblica socialista sovietica autonoma del Turkestan, oggi Uzbekistan, dalla cavalleria baschira dell’Armata rossa nell’agosto 1922. Nell’agosto 1996 Erdogan, appena insediato come primo ministro, tanto per far capire di che pasta è fatto il suo governo, ne fa traslare i resti, ostentandoli in un’orgogliosa cerimonia alla presenza del presidente Suleyman Demirel. Il mondo si ritrova alle prese con il rinato nazionalismo turco, tinto di conservatorismo islamico e traboccante di illusorie ambizioni sull’Asia centrale islamica, spazio geostrategico ritenuto a disposizione dopo il collasso dell’URSS.