Il 14 dicembre il Giappone è andato alle urne con circa due anni di anticipo, per decisione del premier Shinzo Abe, leader del LDP, il Partito Liberal-Democratico. Elezioni costate circa 63 miliardi di yen (500 milioni di dollari) e i cui risultati hanno largamente confermato gli assetti pre-voto.
Sia in Giappone sia all’estero, il ricorso a elezioni anticipate è stato percepito come un referendum sulla politica economica promossa dallo stesso governo Abe, la cosiddetta Abenomics, neologismo creato dai media per definire il cambiamento di rotta rispetto alle politiche economiche fortemente conservatrici degli anni precedenti.
La nuova politica economica è nata con l’obiettivo di far uscire il Giappone da decenni di stallo economico, caratterizzato da bassi tassi di crescita del PIL e da una deflazione cronica. Ed è in netta controtendenza rispetto a quella europea dettata da Angela Merkel, fatta di rigore fiscale, pareggi di bilancio e assenza di crescita.
In sostanza la ricetta di Abe poggia su un mix di statalismo e politica keynesiana. In primo luogo una politica fiscale espansiva mirata a stimolare la crescita attraverso l’aumento della spesa pubblica e restituire così la fiducia ai consumatori e alle imprese. In nome della lotta alla deflazione, un piano di quantitative easing, ossia un massiccio acquisto di titoli del debito giapponese e di altri titoli obbligazionari per favorire il deprezzamento dello yen e far ripartire le esportazioni. Infine un programma di riforme strutturali di lungo periodo per stimolare gli investimenti del settore privato e una maggiore concorrenza. Premi Nobel americani per l’Economia come Paul Krugman e Joseph Stiglitz hanno accolto con favore la politica monetaria di Abe. In particolare Stiglitz in un editoriale senza fiato sul New York Times aveva speso parole di grande elogio per Abe, per il coraggio di aver fatto quello che l’America avrebbe dovuto fare da tempo.
Illusione o rivoluzione? I risultati nel breve periodo sono stati incoraggianti. I consumi sono aumentati, il PIL è salito fino al 3,5 per cento, la disoccupazione è scesa al 4,1% e la spesa delle famiglie è aumentata del 5,2%. Eppure a due anni dal suo “lancio”, sono molti a pensare, soprattutto tra la popolazione giapponese, che la formula magica di Abe abbia favorito soprattutto i gruppi finanziari detti keiretsu, una struttura formata da imprese attive nei principali settori dell’economia e collegate tra loro grazie a compartecipazioni azionarie. Alcune delle riforme promesse dal primo ministro nipponico, tuttavia, sono state rimandate a dopo il voto, tra cui quella che avrebbe dovuto favorire una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro.
Così a distanza di due anni, con lo Yen in caduta libera e il debito pubblico fuori controllo, il paese asiatico è precipitato in recessione per la terza volta in quattro anni. Si parla di fallimento della Abenomics, che per i suoi detrattori è diventato un chiaro esempio dei limiti e delle conseguenze negative del deficit spending e di tutte le politiche espansionistiche. Oltre a dare voce a coloro che da sempre accusano Shinzo Abe di aver fatto ben poco per affrontare due questioni cruciali: un settore agricolo statico e in forte crisi e il disastroso declino demografico del Paese che pare irreversibile.
Nonostante tutto, i giapponesi che hanno votato, poco più della metà dell'elettorato, hanno deciso di concedere alla Abenomics una seconda opportunità. Un risultato che avrà un forte impatto anche sulla politica estera di un paese che sta cercando di svincolarsi dall’influenza di Washington, da quello che lo stesso Abe definisce regime “post-bellico”.
Il Giappone infatti aspira a modificare la Costituzione che fu scritta su suggerimento degli americani nel loro tentativo di democratizzare e demilitarizzare il paese nell’immediato dopoguerra. Molto dipenderà dall’esito dei negoziati della Trans Pacific Partnership (TPP) con gli USA. L’accordo gemello del TTIP, diventato uno dei cavalli di battaglia dell'amministrazione Obama, dovrebbe contribuire a stimolare molte delle riforme incluse nel piano della Abenomics. Per un paese poco aperto al commercio estero, si tratterebbe di una svolta importante ma necessaria per contrastare l’espansione economica della Cina.
Ma ha senso organizzare una zona di libero scambio che la massima potenza commerciale mondiale? Peraltro i rapporti diplomatici tra il Paese del Sol levante e il Dragone rosso sono stati messi a dura prova da una serie di controversie territoriali su un gruppo di isole e dalle politiche revisioniste dello stesso Abe. Eppure nelle strategie politiche di America e Giappone, l'alleanza tra i due paesi, tra alti e bassi, continua a rappresentare il principale deterrente per contrastare le ambizioni nucleari della Corea del Nord e l’ascesa cinese che rischia di compromettere l’equilibrio nell’area asiatica del Pacifico.