Non ce l’ha fatta, la pioggia, a fermare le centinaia di persone che all’alba di sabato mattina sono partite da Union Square per raggiungere Washington DC, dove si sarebbe tenuta una marcia per la pace in Palestina. Tra gli autobus partiti da altre zone della città e le macchine private, da New York sono partite circa 3.000 persone. Alla fine, di fronte alla Casa Bianca, eravamo (secondo le prime stime) più di 30.000. Attivisti, studenti, intere famiglie e anche qualche celebrità venuti da tutti gli Stati Uniti per esprimere il loro sostegno ai gazawi e per protestare contro l’impassibilità del governo di fronte alla strage. “Siamo qui per due motivi – spiega Ken, uno degli organizzatori (ventiquattrenne di New York di origine portoricana) – Il primo è diffondere consapevolezza su ciò che sta accadendo; il secondo è informare su quanto siamo coinvolti noi americani in questo massacro: ogni giorno 8 milioni di dollari statunitensi finiscono nelle casse delle forze militari israeliane, si tratta di circa 60 milioni a settimana, 3 miliardi di dollari l’anno. Sono soldi che arrivano dalle nostre tasse, e noi non vogliamo essere partecipi di questo massacro”.
Sono informazioni che i più importanti network americani non veicolano, ed è per questo che gli attivisti si informano ormai quasi essenzialmente su internet, sui social network, o leggendo libri di intellettuali che considerano “liberi”. “Seguo molto ciò che dice Noam Chomsky – spiega Juan, insegnante newyorchese proveniente da Lima, che è qui con tutta la sua famiglia – Lui mi ha fatto capire che c’è una differenza tra giudaismo e sionismo e che questo non è un problema religioso, ma una questione di dominazione politica”. “Non mi informo certo su Fox News o sulla CNN – precisa Rose, casalinga di Detroit di origine giordana – Sono una pensatrice libera e voglio sapere la verità: io sono cristiana ma prima di tutto sono araba, e voglio aiutare i miei fratelli, non finanziare una guerra che li massacra, con le mie tasse. Non voglio farmi fare il lavaggio del cervello dalla macchina della propaganda, controllata da media sionisti. Ho votato entrambe le volte per Obama ed è stato un grande errore, perché mi sono accorta che non è altro che un pupazzo nelle loro mani. È per questo che oggi sono venuta qui con tutta la mia famiglia”.
Le caricature di Obama, Netanyahu e Ban Ki-moon sono ovunque: alcuni espongono le loro foto con il motto “Non vedo, non sento, non parlo”. È questa la sensazione di chi è venuto fino a Washington per far sentire la propria voce: che le istituzioni non stiano facendo nulla per risolvere la crisi israelo-palestinese. Khalid, di origine pakistana, venuto dall’Ohio con tutta la famiglia, si chiede “Perché non intervengono? L’esercito americano interviene ovunque, ma non alza un dito per difendere i diritti dei palestinesi. Noi non siamo contro Israele, vogliamo semplicemente che si arrivi a una soluzione permanente e che si ponga fine a questo massacro. Oggi sono qui per chiedere al mio governo di non esitare più: come fanno a rimanere impassibili mentre guardano in televisione ciò che succede?”.
“Il cambiamento può venire solo dal basso, perché ai potenti non importa di cambiare le cose” spiega Dave, pastore socialista della United Church of Christ, venuto da Philadelphia – La guerra è un grande business che arricchisce la nostra economia. La religione c’entra poco o nulla. Sono qui perché ho bisogno di fare qualcosa per fermare questi omicidi che avvengono nel nome del denaro. Sono consapevole che una marcia da sola non può cambiare le cose, ma tante piccole azioni, una dopo l’altra, possono farlo. Il mio motto è ‘Non uccidere’”.
Lucy Murphy, cantante nata e cresciuta a Washington DC, è una veterana delle manifestazioni di fronte alla Casa Bianca: “Ho cominciato negli anni Sessanta, avevo solo 12 anni”. Dopo aver cantato un gospel per Gaza, mi racconta che, dall’inizio delle proteste a favore del popolo palestinese, le cose sono cambiate: “C’è una nuova consapevolezza: anni fa ci davano degli antisemiti e venivamo emarginati perfino nei luoghi di lavoro. Adesso, però, l’attenzione è talmente alta che persino molti ebrei si dissociano dal comportamento di Israele”. E infatti vicino a noi ci sono molti esponenti della comunità ebraica, qualcuno ha persino scritto su un cartello: “Survivor Holocaust: Stop the massacre!”.
Non manca la comunità chassidica, arrivata dal quartiere newyorkese di Wiliamsbourg. “Quando arriverà, sarà il Messia a donare a tutti, non solo agli ebrei, la Terra Promessa – mi spiega un giovane rabbino – Non può costruirsela l’uomo, da solo, subordinando i suoi fratelli e sorelle. Lo dice chiaramente la Torah. Siamo qui per sostenere i diritti del popolo palestinese e per spiegare alle persone che essere ebrei significa ripudiare la violenza e rispettare la vita umana”. Poi mi sorride e comincia a inneggiare “Judaism yes, Zionism no! The State of Israel must go!”.