Il panel della Nazioni Unite Best practices and challenges implementing a moratorium on the death penalty (“Le migliori pratiche e sfide per applicare la moratoria della pena di morte”) si è aperto con una dichiarazione del Segretario Generale Ban Ki-moon che non lascia dubbi su quale sarà, nei prossimi anni, l’agenda dell'ONU per eliminare le esecuzioni capitali nel mondo: “Non c’è posto per la pena di morte nel ventunesimo secolo”.
Nel Dicembre del 2007 l’Assemblea generale dell'ONU ha votato la Moratoria universale della pena di morte, con 104 voti a favore, 54 contrari (tra cui Stati Uniti) e 29 astenuti. La risoluzione prevede “la progressiva restrizione dell’uso della pena di morte e la riduzione del numero di casi in cui può essere applicata”. Se 25 anni fa 3 Stati su 4 prevedevano la pena capitale, oggi le esecuzioni avvengono in un Paese su 5; va però precisato che, su 148 stati che la rifiutano, solo 100 l’hanno abolita completamente, mentre negli altri casi è la prassi a dimostrare che non si va al patibolo da 10 anni). Nonostante i progressi, Ban Ki-moon si è detto preoccupato “per la violazione dei diritti umani nei Paesi che applicano ancora la pena di morte”. Le preoccupazioni del segretario generale riguardano in particolar modo i Paesi in cui le sentenze vengono applicate a reati legati alla droga, atti sessuali consenzienti e l’apostasia. Quattordici nazioni, inoltre, “permettono la pena di morte sui bambini, così come il nuovo fenomeno dell’esecuzione di gruppi di persone in processi di massa”. Tutto ciò avviene, ad esempio, in Cina, Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Pakistan, Sudan e Yeme.
Il panel è stato organizzato dall’UNHCHR (Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite) e dalla Rappresentanza permanente dell’Italia all’Onu. La presenza in prima linea del nostro Paese non sorprende, se consideriamo che, come ha ricordato l’ambasciatore italiano Sebastiano Cardi, il Granducato di Toscana fu il primo Stato ad abolire la pena di morte, nel 1786, anche grazie al trattato di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene che, per la prima volta, condannò apertamente la pratica delle esecuzioni capitali.
La pena di morte “è un trattamento degradante, in quanto negazione del diritto fondamentale che ogni persona ha di vivere”, ha dichiarato Sebastiano Cardi. L’ambasciatore ha ricordato, inoltre, che la pena di morte “è irreparabile e irreversibile, porta con sé il rischio troppo alto di convinzioni ingiuste, anche nei sistemi giudiziari più sofisticati, e l’incidenza di persone appartenenti a gruppi discriminati o marginalizzati tra i condannati appare sproporzionata”.

L’intervento dell’Ambasciatore Sebastiano Cardi
È intervenuta poi Tawakkol Karman, giornalista e politica yemenita che nel 2011 ha vinto il Premio Nobel per la Pace. Secondo la leader di Giornaliste senza catene il primo modo per “fermare la macchina delle uccisioni e del massacro di persone” è l’esclusione dalle esecuzioni capitali delle donne incinte e dei minori di 18 anni, oltre all’abolizione della pena di morte per i reati di opinione che, nei Paesi mediorientali, nasconde l’odio verso determinate minoranze etniche o religiose. Ma le esecuzioni capitali sono ingiustificate anche verso gli assassini, che sono “persone con problemi psicologici che hanno diritto alle cure di cui necessitano”.
Il panel è proseguito con gli interventi di Gil Garcetti, ex procuratore distrettuale di Los Angeles e ora politico del Partito Democratico. In California, nel novembre 2012, si è votato sulla possibile abolizione della pena di morte, che ha però mantenuto il 52% dei consensi. Tuttavia, l’ultima sentenza è stata eseguita nel 2006 e, dal 2013, molti tribunali hanno sospeso l’applicazione della legge in seguito a problemi con il nuovo protocollo di farmaci per l’iniezione letale. Garcetti ha ricordato che, in base alle statistiche, “non si può affermare in alcun modo che la pena di morte funzioni come deterrente” e che, se realizzata nel rispetto delle regole internazionali, “il costo di una singola esecuzione è molto più alto dell’imprigionamento a vita”. E la morte di un assassino non serve neanche a far giustizia, dato che, come ha ricordato il politico, “subito dopo un’esecuzione i parenti delle vittime si rendono conto che quel gesto non ha avuto senso, perché non riporterà indietro i loro cari”. Per tutte queste ragioni “è importante che il Presidente degli Stati Uniti, per il prestigio che ricopre, appoggi la moratoria e diventi un esempio per i capi di Stato di tutto il mondo”. Negli Stati Uniti, la pena di morte è permessa ancora in 30 Stati su 50.
Innocent Maja, avvocato dello Zimbawue specializzato in diritti umani, ha ricordato che, negli ultimi anni, in Africa sono aumentati i casi in cui, almeno sulla carta, non si può applicare la pena di morte: donne incinte, minori e uomini con problemi mentali. In Zimbawue, dove le esecuzioni capitali avvengono per impiccagione, sono 97 le persone in attesa di essere giustiziate (dati del 13 gennaio 2014); tuttavia da dieci anni non c’è stata alcuna esecuzione.
Per Paul Bhatti, ex Ministro delle minoranze religiose in Pakistan, l’abolizione della pena capitale è “letteralmente una questione di vita o di morte”. Questo soprattutto in considerazione delle esecuzioni di persone innocenti e dell’uso che alcuni regimi ne fanno, per minare i diritti delle minoranze. Suo fratello, Shahbaz, fu assassinato nel 2009 dal gruppo fondamentalista “Tehrik-i-Taliban Punjab”, in seguito alle sue battaglie in difesa dei cristiani pachistani e, soprattutto, della cristiana Asia bibi, condannata a morte per blasfemia (e ancora detenuta nel Punjab). “La pena di morte”, ha dichiarato Paul Bhatti, “genera il terrorismo e perpetra una cultura di morte. Non è affatto un deterrente, anzi diventa un incentivo per aumentare il clima di terrore”. Eliminarla, quindi, vuol dire “favorire la pace, e far si che i nostri figli crescano consapevoli e non schiavi delle ideologie”.