Il primo ministro turco ha rilasciato mercoledì uno storico comunicato sullo sterminio che gli Armeni patirono nell’allora impero ottomano. Il documento è un passo verso la verità, anche se si presta a critiche alla luce di come quegli avvenimenti si svolsero.
A parte il passaggio all’impero russo di piccole zone di territorio armeno dopo le guerre russo-turche del 1828-29, allo scoppio della Grande guerra popolo e territorio armeni costituivano una enclave cristiana in un impero ottomano abitato soprattutto da islamici e turcofoni. Nel 1880 la piccola popolazione era insorta, soffrendo 300mila vittime. Tra il 1895 e il 1896 c’erano stati i massacri Hamidiani. Nel 1909, i Giovani turchi, che avevano preso da poco il potere, uccidevano 30mila Armeni in Cilicia. Il peggio doveva iniziare in una data che gli Armeni non dimenticheranno mai: 24 aprile 1915. Su 2,5 milioni di Armeni stabiliti in territorio ottomano, 1 milione e mezzo viene mandato a morte. Prima i militari inquadrati sotto bandiera ottomana, poi la popolazione, con stupri e mutilazioni di massa. Indipendente dal 1918, l’Armenia gode il riconoscimento del trattato di Sèvres del 1920, ma è nuovamente spartita tra turchi e sovietici. Nelle convulsioni post-sovietiche, torna indipendente, ma non certo tranquilla, vista la guerra del 1991 con il musulmano Azerbaijan a protezione dei 250mila connazionali del Nagorno-Karabach.
In una storia tanto dolente, s’impongono i fatti del 1915, definiti “genocidio” dal Parlamento europeo nel 1987 e dal Parlamento francese nel 2011 (in Francia vive mezzo milione di armeni). Ankara rigetta da sempre quella definizione, che ha un preciso significato giuridico, produttivo di conseguenze sul piano finanziario e politico. Con il comunicato di mercoledì Erdogan non modifica l’atteggiamento tradizionale, ma fa significative concessioni sul piano delle responsabilità, esprimendo scuse e condoglianze per l’accaduto. Peccato che svilisca il suo gesto col mettere la tragedia armena nel grande calderone delle repressioni dell’ultima fase del regime ottomano. E’ posizione che certamente non basterà ai sette milioni di armeni della diaspora, e tanto meno ai tre milioni di cittadini dell’attuale stato. Né aiuteranno le parole d’ordine “nazionali” attese dalla Chiesa gregoriana autocefala, collante degli armeni dispersi nel mondo.
Erdogan conferma l’abilità di politico realista sino al cinismo, ma scrivendo che la repressione ottomana colpì indistintamente ogni religione ed etnia e che “il fuoco brucia ovunque cada”, si mette in contrasto con l’analisi storica alla quale si appella. E’ come affermare che la caccia nazista agli ebrei fu episodio tra i tanti luttuosi della Seconda guerra, non genocidio specifico. Inoltre la Porta fu responsabile sino a un certo punto dell’accaduto: le decisioni furono prese da Atatürk e da Enver Pasha, padri della repubblica, che avevano imposto al sultano la loro costituzione. La sacralità dei due è indiscutibile in Turchia, specie per i comandi militari, ma la ricerca storica cui fa appello Erdogan non potrà che confermare la responsabilità diretta negli eccidi sugli armeni, accusati di complotto con la Russia cristiana. Né dimentichi Erdogan che la tappa successiva prevedeva l’assalto ad altri cristiani, in particolare Greci e Assiri, anche se non fu realizzata.
Sulla questione armena, è evidente che Erdogan deve evitare di scontentare sia il suo partito islamico che i militari. Al tempo stesso il malessere economico e sociale, insieme alle crisi di frontiera in Siria ed ex Urss, lo forzano a riaprirsi a UE e Occidente. Sia consapevole che gli armeni sopravvissuti alla violenza turca, non acconsentiranno a farsi usare come pedina di scambio.