Mi piacerebbe scrivere una lettera aperta ai direttori italiani di televisioni, radio e carta stampata. Mi piacerebbe che in Italia si aprisse un dibattito su come si fa informazione e perché. Mi piacerebbe che ci fosse qualche redazione coraggiosa pronta a invertire il sistema. Ecco perché, per “Cose dell’altro mondo”, questa settimana vorrei parlare non di un fatto di cronaca, ma dei meccanismi che fanno muovere la stampa nostrana.
Di cosa sto parlando? Tutti quanti voi saprete che l’ex senatore Marcello Dell’Utri è stato trovato in Libano proprio nei giorni precedenti al pronunciamento della Cassazione sulla sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. In questo articolo però non troverete una riga sulla Suprema Corte, né tanto meno sulla questione del mandato di cattura internazionale. No, io voglio raccontare l’amarezza che ho provato quando, pochi giorni fa, ho scoperto che i direttori dei media italiani hanno mandato di corsa una serie di inviati a Beirut. Neanche 24 ore e già c’era qualcuno che dal suo stand up sul lungomare della capitale libanese ci raccontava dell’hotel dove è stato trovato Dell’Utri. Di cosa dicevano di lui gli impiegati dell’albergo. Di come è stato trovato. Qualcuno si è anche perso in uno slancio cronachistico, in cui venivano raccontante “immense procedure di sicurezza” in una città “preda della violenza” (mentre sullo fondo scorrevano persone che facevano jogging o ragazze in bicicletta), con una racconto dei quartieri sciiti, sunniti e cristiani praticamente incomprensibile. Per non parlare poi della ricostruzione del personaggio Amin Gemayel, politico cristiano fondatore del partito “Kata’eb”, quelle falangi cristiane che fanno correre tristemente la memoria ai sanguinolenti massacri di civili nei campi palestinesi di Sabra e Shatila.
Ovvio che non tutti i colleghi siano preparati sulla politica estera, le fazioni vicino-orientali e soprattutto sulla complicatissima composizione dei partiti politici libanesi. Ovvio che non si possa chiedere a chi fa retroscena dal Transatlantico di fare un racconto ragionato delle alleanze a geometria variabile tra sciiti, cristiani e sunniti.
Quello che però fa riflettere è come il giornalismo italiano riesca a mobilitarsi in fretta e furia per Dell’Utri e non si comporti nello stesso modo per raccontare, tanto per rimanere in tema e nella stessa zona geografica, della crisi siriana e del conseguente dramma umanitario. Com’è possibile che Beirut fosse tanto lontana per parlare dei profughi e aprire gli occhi il mondo e diventa così vicina in queste ore? Com’è possibile che gli italiani siano così tanto focalizzati sul proprio ombelico da dimenticarci tutto il resto? E ancora, com’è possibile che la stampa italiana dimentichi e in alcuni casi salti a piè pari le vicende di esteri e di zone di crisi, non comprendendo che il mondo è molto piccolo e che soprattutto quello che succede nel bacino del mar Mediterraneo è qualcosa che si ripercuote direttamente su di noi?
C’è bisogno di un cambio culturale e anche di tanto coraggio. Cari Direttori, perché non iniziate a mettere gli esteri sempre in apertura, con approfondimenti ad hoc per spiegare alla “casalinga di Voghera”, tanto per fare un esempio, cosa succede in Siria e perché i siriani approdano sulle nostre coste? O ancora cosa succede in Somalia o in Repubblica Centrafricana? Abbiamo veramente bisogno di Dell’Utri per aprire finestre di comunicazione da Beirut? Quanta amarezza, per l’ennesima occasione comunicativa persa. Una volta spesi i soldi del biglietto aereo, dopo averci raccontato com’era composta la stanza d’albergo di Dell’Utri, forse i nostri colleghi potevano essere mandati dai propri direttori a mezz’ora di macchina da Beirut a vedere come vivono i profughi siriani. O a raccontare i combattimenti che ogni tanto dalla Siria sconfinano in Libano. Peccato che nessuno ci abbia pensato. Peccato che in tre anni pochissimi siano stati gli inviati in Libano, sicuramente meno dei tanti mandati negli ultimi tre giorni.
Twitter: @TDellaLonga