Scrive provocatoriamente Sergio Romano sul Corriere della Sera che John Kennedy non è stato un grande presidente. Sbaglia, Romano. Un conto è affermare che l’opinione pubblica ha gratificato di un giudizio troppo positivo i mille giorni di Kennedy anche perché influenzata dalla sua eccellente capacità di comunicazione, e poi dal terribile suo destino. Un conto è proporre un giudizio politico negativo su una presidenza, peraltro incompiuta, negandone la rilevanza.
Il revisionismo dell’editorialista del Corriere individua quattro terreni sui quali si sarebbero registrati i presunti limiti dell’uomo assassinato mezzo secolo fa a Dallas: il confronto con l’Urss, la questione cubana, la guerra vietnamita, i diritti umani e civili. Peccato che, con gli errori e le omissioni, non vengano evidenziati anche i successi.
Partiamo da una constatazione. JFK prende in mano una nazione bolsa e stanca. Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra mondiale, ma con Eisenhower si sono fermati nel guado del dopo Corea e del conflitto interno sul complesso militar-industriale. Non riescono a metabolizzare le consapevolezze della superpotenza egemone e dell’impegno globale. I sovietici sono avanti nello spazio e Krusciov dichiara che i comunisti stanno creando una società migliore di quella capitalistica.
La “nuova frontiera” kennedyana sconfigge la frustrazione americana e sbaraglia la fanfaronata kruscioviana. Il sorpasso nello spazio, la fermezza davanti al muro di Berlino e a Cuba, la “nuova società” e l’integrazione delle minoranze, cambiano l’America, che nel mezzo secolo successivo sarà kennedyana anche quando non se ne rende conto, soprattutto sul piano della cultura e del mutamento sociale. Kennedy prende la scena a Krusciov: lo snerva sino a fargli battere la scarpa alle Nazioni Unite e al tempo stesso avvia il dialogo bilaterale i cui frutti si vedranno nel decennio successivo ad Helsinki con la Csce. Più in generale i Glorious 60s e l’onda lunga che arriva sino ai nostri giorni, nascono con Kennedy e il suo grande intorno di intellettuali e artisti.
Il giovane presidente è responsabile per il Vietnam, scrive Romano, e glielo addebita. La domanda alla quale non avremo mai risposta è: cosa sarebbe accaduto se JFK fosse rimasto il comandante supremo di quella guerra? Tre mesi e mezzo prima del suo assassinio, ad inizio agosto, aveva inviato un telegramma con il quale patrocinava il colpo di stato dei generali sud vietnamiti contro la dittatura dei fratelli Ngo Dinh Diem e Ngo Dinh Nhu, benché questi fossero anticomunisti e cattolici. Si potrebbe arguire che la loro rimozione, insieme all’azione clandestina dei GI già spediti nelle risaie e nella giungla vietnamite, venissero considerate, per quel momento, sufficienti. L’assassinio dei due all’inizio di novembre, non voluto da Kennedy che ne resta sconvolto (lo confessa al suo registratore), cambia le carte in tavola. E’ Johnson che tira, sbagliando, conclusioni favorevoli all’escalation.
A proposito di Johnson, corrisponde al vero l’affermazione di Romano sulla sua paternità delle riforme sui diritti civili e umani, via “Great Society”. Ma quel programma transitò nel sentiero aperto e sminato dal predecessore con il fratello Bob. Furono i due Kennedy ad affrontare a brutto muso razzisti e segregazionisti, a dare spazio a Martin Luther King, a infiammare la vasta platea di New Left e innovatori: “If a free society cannot help the many who are poor, it cannot save the few who are rich”, aveva dichiarato JFK nel discorso inaugurale, a Washington D.C. il 20 gennaio 1961.
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