Venti anni sono passati da quando un articolo del politologo americano Samuel P. Huntington aprì uno scenario di riflessione, dalle conseguenze anche politiche, come pochi si erano visti prima. Nel 1993 lo studioso scrisse un pezzo per Foreign Affairs che consegna alla storia un’espressione in grado di identificare gli anni a venire: “The Clash of Civilization?”, cioè “Lo scontro delle civiltà?”. Il punto interrogativo scomparirà nella pubblicazione successiva di una monografia, tre anni dopo, con il titolo più assertivo: “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order”, nella versione italiana: “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.
Lo scritto seguiva e rispondeva a quanto teorizzato da un altro politologo influente, Francis Fukuyama, nel suo altrettanto testo ampiamente diffusosi un anno prima: “The End of History and the Last Man”, nella versione italiana: “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Per Fukuyama la vittoria della liberal-democrazia sul comunismo, sgretolatosi poco tempo prima, dava luogo alla fine di un processo di evoluzione della storia umana, in quanto non si può pensare ad un modello socio-politico che oltrepassi quello democratico. In altre parole l’umanità ha raggiunto il suo traguardo. I conflitti nascono, semmai, nelle rivalità tradizionali tra gli Stati e tra ritorni di tribalismo contrapposti a forme diffuse di globalismo. E se su quest’ultimo punto la profezia non sarà del tutto erronea, sulle premesse invece, cioè sul tema della fine della storia, Fukuyama revisionerà il suo pensiero.
Huntington critica l’approccio di Fukuyama. Altro che fine della storia, qui ne comincia un’altra. Come lui stesso scrive: “La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica. Le grandi divisioni dell'umanità e la fonte di conflitto principale saranno legata alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”.
Profeta? Sì, con molta probabilità. E per certi versi la profezia diventa tangibile e visibile agli occhi del mondo otto anni dopo, l’11 settembre 2001. Tuttavia, mi preme sottolineare, che quanto sostenuto dal politologo americano abbia preso strade perverse: per molti apparve, ancora oggi, piuttosto che un fine pensatore e analista politico, un fautore dello scontro di civiltà. Dall’altro lato, la sua tesi più interessante è stata meno discussa e messa in disparte, e cioè che i conflitti saranno culturali perché le identità si “cristallizzano” culturalmente: “L’accresciuta importanza dell’identità culturale. è in larga parte il risultato della modernizzazione socioeconomica verificatasi sia a livello individuale, dove alienazione e disorientamento creano il bisogno di più strette identità, sia a livello sociale, dove l’accresciuta forza e le maggiori potenzialità delle società non occidentali stimolano il risveglio delle identità e culture autoctone”. Prosegue: “le civiltà non hanno confini nettamente delimitati, non hanno un inizio e una fine precisi. L’uomo è in grado di ridefinire. e lo fa. la propria identità, cosicché forma e composizione delle civiltà vengono a cambiare nel tempo. Le culture dei popoli interagiscono e si sovrappongono, di modo che anche il livello di somiglianza o di diversità tra le culture delle singole civiltà può variare considerevolmente. Ciononostante, le civiltà sono entità estremamente rilevanti e i confini che le separano, benché raramente ben definiti, sono confini reali.”
Ma quali sono queste civiltà? Attualmente, secondo Huntington, nel mondo ne esistono nove: la sinica, l’occidentale, la giapponese, l’ortodossa, l’indiana, l’islamica, la latinoamericana, la buddista e probabilmente anche l’africana.
Senza soffermarsi sul fatto se queste siano veramente tutte civiltà o meno, Huntington ebbe il merito di porre al centro dell’attenzione pubblica, molto prima di altri, quello che ormai sembrava diventare un dato di fatto: cioè che le identità si definiscono culturalmente e non più per semplice appartenenza di cittadinanza allo Stato-nazione. Un’identità culturale travalica i confini nazionali, le barriere tra uno Stato e l’altro e trova nuove adesioni che fanno riferimento a interessi comuni, a sentimenti di appartenenza simili, a storie condivise, a visioni del mondo simili. Consapevoli che tutto questo può generare scontri, conflitti, violenze.
Dove ci porta quanto scritto finora nella nostra rubrica? Sarà ormai ben chiaro che queste sono le premesse teoriche, seppur apparentemente distanti, di quella che noi definiamo italicità. E’ proprio da riflessioni come queste che il nostro amato mondo italico conosce il suo inizio.