Carnegie Endowment for International Peace è il più antico centro statunitense di studi internazionali, e il primo think tank globale. Cent’anni fa condusse una missione particolarmente complessa, inserendosi, come fosse una Ngo autonoma dall’influenza delle potenze, dentro la decomposizione dell’impero ottomano, con l’obiettivo di contribuire a limitarvi la violazione dei diritti umani. La commissione plurinazionale di sette membri tornò dal teatro delle guerre balcaniche con un dossier di orrore e dolore immensi, che sollecita tuttora utili considerazioni.
La prima riguarda il quadro istituzionale che, allora come ai nostri giorni, genera le stragi di popolazioni inermi. Il rapporto, diffuso in più lingue e in decine di migliaia di copie, interpellò governi e opinioni pubbliche, per la prima volta nella storia, sulla capacità della comunità internazionale di imputare la responsabilità penale degli eccidi documentati: se ai governi, ai graduati, alle bande di irregolari. Fece capire che in guerra i crimini non stanno da una parte sola, e produsse categorie giuridiche nuove che si sarebbero mostrate decisive per il diritto penale umanitario cresciuto dopo la seconda guerra mondiale: deportazione, tortura di prigionieri, sterminio, violenza su donne e bambini, campo di detenzione sfruttamento e assassinio, genocidio.
La seconda considerazione riguarda il fatto che, come i conflitti nascono nel recinto della politica, la pacificazione può darsi solo attraverso l’eliminazione, o una sostanziosa riduzione, delle ragioni politiche che li hanno prodotti. Il rapporto evidenziò come le popolazioni balcaniche fossero vittime soprattutto delle decisioni assunte dalle potenze europee sui territori appartenuti agli imperi asburgico e ottomano. Sette anni dopo, in un’altra indagine sui Balcani, Carnegie avrebbe affermato che l’intreccio di nuove relazioni politiche ed economiche tra Grecia, Iugoslavia e Albania stava costituendo un elemento decisivo per la stabilizzazione della regione. L’Endowment, con intuizione davvero originale in tempi nei quali il frastuono delle armi prevaleva sulle voci della diplomazia e l’idealismo wilsoniano subiva l’atroce e definitiva sconfitta al Senato degli Stati Unti, affermava la necessità di praticare tre principi: stabilizzazione, integrazione, prosperità economica.
L’altro punto da sottolineare è che, con il definitivo abbandono dell’idealismo wilsoniano e la conseguente sterilizzazione della Società delle Nazioni, si andava producendo in quegli anni l’accettazione della guerra come strumento “eterno” di relazioni internazionali. Di conseguenza veniva a galla la richiesta di un’attività di normazione per la protezione delle popolazioni civili, candidate (come sarebbe effettivamente accaduto in tutto il Novecento) a rappresentare il bersaglio preferito delle azioni belliche. La Carnegie metteva l’establishment statunitense, che li aveva ignorati, davanti alla ferocia degli scontri etnico-religiosi nella dorsale geopolitica che, in The Clash of Civilizations, Huntington avrebbe chiamato faglia di conflitti irrinunciabili.
La pace propugnata dal filantropo Andrew Carnegie (1835-1919) per l’educazione delle opinioni pubbliche, resta utopia. Rispetto alle denunce di un secolo fa, gli esseri umani, e gli stati che esprimono, hanno continuato a scontrarsi e uccidersi, ripetendo anzi ampliando, grazie alle scoperte della tecnologia, forme e modalità degli stermini di massa. Basti richiamare cosa sta succedendo oggi in Siria e ieri in Bosnia o Ruanda, per non dire della shoah antisemita. Resta la promessa di Cristo sui “pacifici” che “saranno chiamati figli di Dio”, e il dovere morale di mai rinunciare a schierarsi contro la vigliaccheria di chi colpisce popolazioni disarmate.
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