Lo chiamano “La bestia”. E' un treno merci che dal Messico arriva negli Stati Uniti d'America. E che si è guadagnato questo angosciante soprannome sul campo. Drammaticamente. E' su queste dodici carrozze, infatti, che i migranti del Centro-America rischiano la vita, cercando di passare il confine Nord Americano senza dover pagare i mercanti di uomini, che chiedono mediamente per un passaggio fino a 3000 dollari. Troppi per chi non ha nulla.
Tanto sono le storie di persone ferite, di arti amputati, di migranti sequestrati o uccisi dai narcotrafficanti e dai trafficanti di nuovi schiavi. Questa volta il sogno di una vita migliore si è infranto in una remota regione del sud-est del Messico, vicino Huimanguillo, nelle prime ore dell'alba di domenica scorsa: il treno merci è finito fuori dai binari, causando almeno sei morti e più di quaranta feriti, di cui più di 20 gravi. E la stima ufficiale parla di almeno 300 migranti a bordo della “Bestia”, in maggioranza provenienti dall'Honduras, dal Guatemala e dall'El Salvador. Causa dell'incidente sembra essere lo stato del terreno a causa delle forti piogge delle ultime settimane.
Una nuova storia di morte che da Lampedusa al Messico, da Patrasso all'Australia del Nord, da Calais a Ceuta, entra a far parte di quelle cosiddette tragedie dell'immigrazione. Quelle per capirci dove si fa appunto la conta di morti e feriti e si sbatte la notizia in un articoletto di cronaca. Nulla di più. Eppure la questione dei flussi migratori, in periodo di crisi economica e nuovi venti di guerra, diventa sempre più centrale e avrebbe bisogno di una riflessione concreta: è inaccettabile pensare che nell'anno domini 2013 ancora si possa morire, in mare come in treno, in queste zone grigie popolate dai cosiddetti “ultimi”.
Qui in Centro-America la questione dei migranti è di stretta attualità. In El Salvador come in Guatemala, in paesi dove la parola pace ha trovato cittadinanza solo accanto a parole come narco-traffico e violenza diffusa, la scelta migratoria è una delle poche vie d'uscita per migliaia di persone. Secondo le stime della Croce Rossa Guatemalteca su 25 persone che partono dal Guatemala o comunque dal Centro-America, solamente 5 arrivano a destinazione negli Usa come in Europa. Traducendo in numeri statistici solo il 15% ce la fa. Tutto il resto resta vittima del narcotraffico, delle estorsioni, della sempre drammatica “desaparicion” (anche se non per motivi politici come trent'anni fa), della deportazione forzata, della tratta dei nuovi schiavi.
San Marcos in Guatemala è uno dei tanti punti di passaggio per i migranti centroamericani. Poi ci sono Tapachula e Tijuana in Messico. In Guatemala le storie che si sentono ricordano quelle raccontate nei porti greci o sulle coste italiane: la migrazione come scelta forzata, lasciare la propria terra e i propri affetti in cerca di un futuro migliore. Magari qui non ci sono persone che scappano dalla guerra come siriani ed afghani, ma la disperazione è devastante e tangibile. Come devastante è il dover constare come tante, troppe famiglie vengano svuotate, spezzate dalla scelta migratoria: bambini costretti a crescere in strada perché il padre e magari i fratelli maggiori sono partiti per trovare un lavoro per poi sostentare la famiglia a distanza. E' qui che i più piccoli diventano facile prede delle gang, delle “maras” salvodoregne, delle bande armate. Mentre i famigliari, magari a Los Angeles come a New York, vanno a rinfoltire il numero dei lavoratori in nero, senza diritti, che vivono nell'oscurità. Un meccanismo perverso che rischia di sradicare culture e tradizioni e soprattutto di far perdere generazioni nel nulla. Nel silenzio generale.
Twitter: @TDellaLonga