NEW YORK Giulio Andreotti è stato il leader politico italiano più amato e odiato dagli Stati Uniti. Quello più corteggiato e disprezzato, più valorizzato e isolato, più sostenuto e combattuto. Rappresentando, in questa duplicità, il controverso rapporto avuto da Washington con la Democrazia Cristiana durante la Guerra Fredda. Sono i documenti del Dipartimento di Stato su Giulio Andreotti, ottenuti da “La Stampa” in più occasioni a partire dal 2002, a descrivere tale contrasto. Come ministro degli Interni negli anni Cinquanta e ministro della Difesa dal 1959 al 1966 Andreotti è il leader Dc che si fa apprezzare dalle amministrazioni Eisenhower, Kennedy e Johnson per affidabilità atlantica e impegno a mantenere la stabilità dell’Italia ma poi inizia a smarcarsi: sostiene Enrico Mattei nel fare concorrenza alle compagnie petrolifere americane nel mondo arabo e, dopo la guerra del Kippur del 1973, accelera le intese con le capitali arabe vicine a Mosca, e apre agli scambi commerciali con l’Urss. Via da Washington, l’Italia ondeggia verso il terzomondismo.
Alla Casa Bianca, prima Nixon e poi Ford, iniziano a dubitare della sua affidabilità di alleato. A Washington sono gli anni di Henry Kissinger, spietato avversario del compromesso storico e quando, alla fine del 1977, l’ennesimo governo Andreotti entra in crisi e lui apre ad una maggiore presenza del Pci nella maggioranza l’amministrazione Carter vi vede la conferma che il terzomondismo in politica estera cela la volontà di un patto con Enrico Berlinguer.
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