Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale dedicata alla libertà e alla sicurezza dei giornalisti. La si celebra da dieci anni e alcuni mesi fa avevamo deciso che valeva la pena farlo con un numero speciale, dedicato a tutti quei giornalisti che ogni giorno rischiano la loro vita per raccontare e testimoniare.
Oggi per noi, che dall’8 aprile non abbiamo notizie del nostro inviato Domenico Quirico entrato in Siria per una serie di reportage nell’area di Homs, questa scelta è ancora più significativa e urgente. In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa.
Ci sono Paesi in cui le due cose convivono. Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo. Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
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