Quando nel 2012 ricorse il centenario dell’uscita di una ricerca fondamentale per il rione Testaccio, ma in genere per la storia dei quartieri operai europei, Come vive il popolo a Roma: saggio demografico sul quartiere Testaccio di Domenico Orano, pubblicai con l’editore Franco Angeli nella collana Temi di storia il libro Testaccio da quartiere operaio a village della capitale.
Quest’anno che volge al termine segna un’altra ricorrenza, la definizione dal punto di vista amministrativo di Testaccio come rione, XX rione del centro storico di Roma avvenuto il 9 dicembre 1921, caratteristica che ha dalla sua fondazione essendo incluso nelle mura storiche della Roma imperiale, le mura Aureliane. Lungo il corso di cento anni, questo territorio ha completamente mutato la sua identità. Si potrebbe obiettare che questo cambiamento è avvenuto in ogni quartiere romano. Nel caso di Testaccio tuttavia, ci troviamo di fronte ad un’identità che fu pre-costituita, stabilita a tavolino e pianificata: il quartiere sarebbe dovuto diventare il quartiere operaio per eccellenza di Roma capitale.
I palazzi furono quindi costruiti su un terreno quasi totalmente non edificato e coltivato a filari di uva, per dare dimora alle migliaia di immigrati provenienti dalle altre regioni italiane, attratti dall’offerta di lavoro e dallo stile di vita metropolitano che Roma poteva rappresentare.
Motivo questo, che come scrivevo nella mia ricerca, smitizza l’immagine di Testaccio come «regno incontrastato della romanità» come alcuna pubblicistica con taglio «romanista» restituisce, perché in realtà la popolazione originaria del rione parlò soprattutto abruzzese, ciociaro, molisano, umbro.
Testaccio all’indomani dell’Unità d’Italia era assimilabile, per chi tra i lettori de La Voce di New York conosce bene Roma, a un grande Esquilino, dove le etnie diverse erano rappresentate dalla presenza di molte regioni italiane con dialetti usi costumi e cucine differenti. Una mescolanza di fattori che determinarono anche nella lingua e nel dialetto romano un arricchimento di termini e modi di dire.
In seguito questo territorio che avrebbe dovuto essere luogo e centro della produzione della nascente Roma industriale con il grande impulso dato alla zona Ostiense dove nascono i Magazzini Generali, i Mercati Generali, il Mattatoio, la Centrale Montemartini, la Mira Lanza, la Romana Gas ecc. è diventato da alcuni anni luogo e centro dell’immagine del place to be per sentirsi fighi rilucendo di luce riflessa dal fatto di abitare nello stesso quartiere di alcuni attori e registi, della fluidità dei flussi comunicativi, delle mode, del temporaneo effimero, dove la concezione di territorio usa e getta si accompagna ad una riconoscibilità identitaria ancora presente, pur se residuale e in rapida erosione.

Testaccio è stato attraversato dai commerci dell’età imperiale romana, dai giochi popolari e da pestilenze in epoca medievale, abbandonato per secoli e considerato solo come un posto dove fare gite «fuori porta» fino alla seconda metà dell’Ottocento; in seguito fu scelto nel 1870 come luogo dove far nascere la Roma industriale della neonata capitale; nei primi del Novecento ha attratto l’attenzione di filantropi, di educatori come Maria Montessori, di ordini religiosi come i Salesiani, desiderosi di redimere un popolo per lo più composto di anticlericali.
L’Istituto per le case popolari, nato solo nel 1903, investì molto nella costruzione di lotti, così come lo fecero banche e privati già alla fine dell’Ottocento.
È centro storico, ma non si è mai sentito completamente tale e fu definito «periferia storica» – con un ossimoro veramente originale – dallo stesso Comune di Roma nelle sue “guide rionali”; la banda della Magliana vi reclutò bassa manovalanza ma anche leader fino a costituire la temibile falangia detta dei testaccini, così come fecero le Brigate Rosse negli anni Settanta del Novecento.
Da luogo degradato e ai margini del centro storico, come divenne dopo la chiusura nel 1975 del fulcro produttivo rappresentato dal Mattatoio, ha iniziato una lenta rinascita che ne decreta, dalla metà degli anni Novanta, il nuovo ruolo di rione attrattivo e di risorse artistiche, luoghi di divertimento, teatri, ristoranti, e così via.
Scrive Giandomenico Amendola nel suo La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma-Bari,1997 “Nelle nicchie e sui relitti della vecchia città, amministratori comunali e immobiliaristi creano la città postmoderna dell’immagine, della distinzione sociale e dello spettacolo. Una città nuova con una popolazione anch’essa nuova. I vecchi fabbricati sono recuperati, restaurati e immessi sul mercato per un pubblico in possesso di capitale finanziario e culturale adeguati per una residenza o per servizi di tipo superiore. […] È la gentrificazione che significa il ricambio della popolazione in un’area mediante l’immissione di ceti superiori attratti da interventi di recupero tanto immobiliari che urbano. Per la nuova popolazione affluente è costruito su misure un pezzo di città […] l’importante è che essa sia di moda – trendy è l’espressione corrente anche in italiano – e che, soprattutto, abbia la capacità di conferire status agli abitanti”.
Di gentrification e delle ricerche fatte tra New York e Roma da chi scrive confluite poi nel volume “Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York”, Aracne 2014 abbiamo già avuto modo di parlare in queste pagine.
Negli anni 10 del Duemila, quando il rione si trovò all’apice della movida che poi invece si sposterà al Pigneto e al brand “Roma Est” era consuetudine per noi abitanti del rione sentirsi fare questa domanda da chi cercava i locali di via Monte Testaccio: «Scusi, sa dirmi dov’è Testaccio?» intendendo per Testaccio la sola zona intorno al Monte Testaccio dove erano i locali (ormai quasi tutti chiusi e abbandonati da anni tranne una decina) e considerando il rione come un intero continuum di «parco divertimenti».
Oggi nella città usa e getta facciamo spesso esperienza di quella che già nel 1974 lo scrittore Jonathan Raban ha chiamato «città enciclopedia» la città plastica, quella che è possibile modellare a nostra immagine, e assistiamo alla nascita della città estetizzante e spettacolarizzante.
In questa visione, alcuni quartieri non sono più soltanto i luoghi quotidiani delle pratiche di acquisto, ma sono essi stessi consumati ed esperiti con l’attraversamento di costruzioni immaginative, di loisir. Tuttavia Testaccio convive con una duplicità: un’auto-rappresentazione che lo vuole ancorato al suo passato di quartiere popolare, emarginato, privo delle attrattive del centro storico romano in cui, comunque, si situa. Questa visione è vissuta passivamente principalmente dai nativi che sono soliti esprimersi nei vari gruppi facebook che esistono un po’ per tutti i quartieri “Se di (nome quartiere) se…” dove si assiste a una esilarante lotta verbale tra chi, nato nel quartiere, rivendica una sorta di dna territoriale e i “nuovi arrivati” a cui si attribuisce ogni nefandezza.
Parallelamente, Testaccio è visto dai nuovi residenti, dai borough’s users che soggiornano nei tantissimi appartamenti/studio airbn sorti come funghi anche al posto di molti negozi su strada dagli artisti e attori che soggiornano per brevi periodi, dai frequentatori dei locali, come un luogo dotato di molto appeal dove poter assaporare ancora il gusto dei vecchi rioni popolari e dove l’aggettivo «popolare» possiede una connotazione completamente differente da quella che ne può dare un abitante delle case dell’Istituto per le case popolari.

Un’accelerazione del processo, iniziato molto lentamente dalla chiusura del Mattatoio nel 1975, della trasformazione del quartiere la diede la distruzione nel 2015 dello storico mercato di Piazza Testaccio e il suo trasferimento, con una operazione di project financing tra privato e pubblico, in un manufatto creato ex novo in un’altra direttrice viaria del rione. Il rione all’epoca era all’apice del fenomeno della gentrification e molto lo deve e lo doveva alla sua connotazione di quartiere dove ci si reca per mangiare e bere. La riqualificazione degli spazi cittadini può essere strettamente legata alla gentrificazione del cibo, tanto che ormai Testaccio è a tutti gli effetti un “quartiere food”, non più soltanto il suo mercato in larga parte percorso da consumatori di “street food” o alla ricerca di abbigliamento.
Del resto gli amministratori cercano di fare del loro meglio per riqualificare gli spazi della città e gli esiti dell’uso di questi spazi sono non sempre prevedibili. Spesso per tutta una serie di dinamiche, si snaturano i quartieri popolari, per farne terreni di caccia della speculazione e aree di svago per un pubblico benestante. Se i quartieri vengono ripensati per compiacere e attirare i più ricchi, i valori immobiliari crescono, così come si spostano verso l’alto anche i prezzi dei generi alimentari e l’offerta della ristorazione, fino ad allontanare inevitabilmente le classi meno abbienti.
Capita così che i “broccoletti capati” possono arrivare a costare anche 5 euro al kg e che molti abitanti preferiscano fare la spesa nei limitrofi e più abbordabili quartieri confinanti come Ostiense e San Paolo e lascino il quartiere alla sua “rappresentazione” di quartiere figo e ricco. Peccato che ad una traversa di piazza Testaccio esista da quasi un secolo (coevo quindi alla nascita del rione) il “Circolo San Pietro” che ogni giorno sfama decine e decine di persone che in attesa del pranzo, a mezzogiorno, sostano su quelle stesse panchine che da lì a poche ore si trasformeranno in tavoli per aperitivi tra alcol e cibo biologico, con piatti rigorosamente eco-riciclabili.
“Al” Testaccio, come dicono i frequentatori per darsi un tono, è anche tutt’ora presente una delle più antiche cucine economiche per i poveri di Roma; venne fondata nel 1890 da una signora romana che si fece suora, Elena Bettini, poi divenuta beata. A lei si deve l’apertura della cucina economica a Testaccio poi divenuta Circolo San Pietro (il primo circolo aprì a Trastevere, altro quartiere poverissimo alla fine dell’Ottocento).
In altre parole, la gentrificazione è una riqualificazione a vantaggio di pochi, che esclude e sottrae identità ai luoghi, ai prodotti e – soprattutto – alle persone. E il racconto di un quartiere, qualsiasi esso sia, non è solo (anzi, direi quasi mai…) quello che ne fanno i media. La città è polifonica e va ascoltata se non ci si vuole accontentare di un racconto verosimile, ma non veritiero. Scritto ciò, buon centenario rione Testaccio!