L’hanno ribattezzata “Operazione Martello di Mezzanotte” (Midnight Hammer), anche se a onor del vero le prime bombe sono cadute ben oltre l’una, poco dopo le due del mattino.
È il blitz con cui le forze armate statunitensi, su ordine diretto del presidente Donald Trump, hanno colpito tre dei principali impianti nucleari iraniani nella notte tra sabato e domenica, unendosi alla campagna aerea lanciata da Israele il 13 giugno, con l’obiettivo dichiarato di disarticolare – o almeno rallentare drasticamente – le capacità della Repubblica Islamica di sviluppare un’arma nucleare.
L’attacco ha combinato l’uso di bombardieri strategici B-2 Spirit e di missili da crociera Tomahawk, questi ultimi lanciati da un sottomarino nucleare classe Ohio posizionato nel Golfo dell’Oman. I velivoli, decollati dalla base di Whiteman, nel Missouri, hanno invece percorso oltre 11.000 chilometri in una missione durata circa 18 ore, con rifornimenti multipli in volo, prima di penetrare nello spazio aereo sotto il controllo del Comando Centrale USA.
Secondo fonti del Pentagono, l’operazione ha comportato l’impiego di 75 munizioni a guida di precisione, tra cui 14 bombe GBU-57 Massive Ordnance Penetrator (MOP), ciascuna dal peso di oltre 13 tonnellate e progettata specificamente per colpire bersagli sotterranei a profondità di decine di metri. È la prima volta che queste armi vengono impiegate in un contesto operativo reale.
Il primo bersaglio è stato Natanz, a circa 230 chilometri a sud di Teheran, da anni sotto ispezione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Costruito nel 2002, il sito ospita tre edifici sotterranei e sei strutture in superficie e, con una capacità teorica superiore a 50.000 centrifughe, costituisce il fulcro del programma di arricchimento dell’uranio iraniano.
Negli scorsi anni era già stato oggetto di attacchi, tra cui il sabotaggio informatico dell’operazione “Stuxnet”, condotta nel 2006 da CIA e Mossad, che ne mandò in tilt oltre un migliaio di centrifughe. Nei raid israeliani di metà giugno erano state già colpite le strutture in superficie, in particolare la sottostazione elettrica e l’impianto pilota. L’intervento statunitense ha invece puntato dritto alle sale di arricchimento sotterranee, sganciando proprio una MOP. Immagini satellitari fornite da Maxar Technologies mostrano un cratere nel punto d’impatto, mentre l’AIEA ha rilevato una contaminazione radiologica e chimica interna. “I livelli esterni non presentano variazioni significative”, ha precisato il direttore Rafael Grossi.
Il secondo bersaglio è stato Fordow, considerato il sito più protetto dell’intero programma. Costruito all’interno di una montagna nei pressi di Qom, a 90 km dalla capitale, il complesso è coperto da quasi 90 metri di roccia e dispone di centrifughe avanzate. Israele ha tentato invano di neutralizzarne le difese missilistiche. Ma solo sabato notte, un B-2 americano ha colpito il sito con una bomba bunker-buster. Le immagini satellitari mostrano sei crateri nella roccia e dense colonne di fumo. Teheran continua però a sostenere che “la struttura principale non ha subito danni irreversibili”.
Messo a ferro e fuoco anche l’impianto di Isfahan. Operativo dal 1974, il sito ospita l’impianto di conversione dell’uranio, passaggio preliminare all’arricchimento – ed è qui, assieme a Fordow, che Teheran custodirebbe buona parte dell’uranio arricchito al 60%, soglia prossima a quella militare. I missili Tomahawk lanciati dal sottomarino hanno devastato diversi edifici del complesso, ma non è ancora chiaro se lo stock di materiale fissile sia stato compromesso.
Secondo il Center for Science and International Security, immagini satellitari ad alta risoluzione suggeriscono che l’attacco abbia colpito anche la sezione sotterranea del sito. Ma la struttura è articolata su più livelli e non è chiaro fino a che profondità si sia spinto l’impatto.
Jeffrey Lewis, esperto di non proliferazione, è molto scettico: “È un attacco incompleto. Se l’operazione finisse qui, resterebbe intatto l’intero stockpile di uranio arricchito al 60%, conservato nei tunnel di Isfahan, che sono ancora intatti”.
Alcuni ufficiali statunitensi, ancor prima dell’attacco, avevano sollevato più di un dubbio sull’effettiva capacità delle mega-bombe MOP di colpire con efficacia simile anche Isfahan. Queste sono infatti progettate per colpire bunker sotterranei fino a profondità di circa 60 m, e quindi isufficienti a distruggere i livelli più profondi di Isfahan e Fordow, stimati attorno ai 90 m sotto la roccia.
“Se lì sotto ci hanno costruito qualcosa di più profondo, o progettiamo una nuova bomba, o ci resta solo l’opzione nucleare”, ha chiosato Lewis alla CNN.
Nel corso degli attacchi portati avanti da Israele dal 13 giugno a oggi, sono stati già colpiti una decina di siti missilistici, un deposito centrale di gas a Teheran, una raffineria e il settore 14 del giacimento di South Pars, la più estesa riserva di gas naturale del mondo. Tra le vittime si contano almeno dieci scienziati nucleari, tra cui Fereydoon Abbasi e Amir Hossein Feqhi, rispettivamente ex capo e vice dell’Organizzazione iraniana per l’Energia Atomica. Uccisi anche tre docenti universitari della Shahid Beheshti e almeno diciassette alti funzionari della sicurezza.
Complessivamente, il ministero della Sanità di Teheran ha riferito di oltre 400 morti e migliaia di feriti a causa dei raid israeliani.
La maggioranza degli analisti concorda nel ritenere che l’operazione congiunta Netanyahu-Trump abbia inferto un duro colpo al programma nucleare iraniano. Ma è quasi impossibile che, come pure ha dichiarato Trump, lo abbia effettivamente sradicato.
“I bombardamenti americani non possono annientare l’esperienza tecnica accumulata in decenni”, osserva Darya Dolzikova, senior fellow al Royal United Services Institute. “Anche l’eliminazione fisica delle strutture o degli scienziati non basta a distruggere il know-how”. I tecnici iraniani, aggiunge, “potrebbero agevolmente ripristinare le installazioni danneggiate o costruirne di nuove, magari in località segrete o più protette, come Kolang Gaz La, un complesso in scavo su un versante montuoso, a quanto pare più profondo dello stesso Fordow”.
“Il punto”, prosegue Dolzikova, “è capire fino a che soglia Israele e Stati Uniti si riterranno soddisfatti, e se gli attacchi abbiano rafforzato o indebolito la determinazione iraniana a proseguire verso la soglia nucleare”.
Concetto ribadito da Elliott Abrams del Council on Foreign Relations: “Colpire figure con competenze chiave può rallentare il programma, ma è improbabile che basti a smantellarlo del tutto”.
Il rischio piuttosto è che i raid rafforzino l’idea, in seno all’apparato iraniano, che l’unica garanzia contro nuove incursioni occidentali dello Stato ebraico e del suo alleato statunitense sia acquisire una reale capacità di deterrenza nucleare.

Per Trump, come detto, si è trattato di un “successo totale”. L’Iran, al contrario, ha denunciato una “violazione barbarica del diritto internazionale” e minacciato ritorsioni – poi concretizzatesi con un attacco missilistico (probabilmente concordato con Washington e Doha) ad alcuni avamposti statunitensi in Qatar e Iraq. Una scelta quasi obbligata, dato che un blitz più spavaldo contro le basi americane in Qatar, Emirati o Bahrein avrebbe esposto il regime teocratico salito al potere con la rivoluzione khomeinista del 1979 a una controffensiva devastante.
Parallelamente, è probabile una parallela risposta soprattutto asimmetrica, concentrata su sabotaggi informatici e attacchi per procura. Un’altra opzione sul tavolo è la chiusura dello Stretto di Hormuz, passaggio cruciale per il traffico petrolifero globale. Il Parlamento iraniano ha dato parere favorevole, ma il Consiglio Supremo sembra essere più reticente.
Ipotizzabile infine il ritiro unilaterale dal Trattato di non proliferazione nucleare. Teheran potrebbe invocare la clausola sugli “eventi straordinari” che minacciano gli interessi supremi dello Stato, ponendo fine a ogni forma di ispezione internazionale.
C’è poi lo spauracchio di una catastrofe nucleare come quelle di Chernobyl o Fukushima. L’Iran dispone di circa 400 chilogrammi di uranio già arricchito, distribuiti tra i principali impianti del Paese. Un attacco diretto a un reattore attivo, come quello di Bushehr o il centro di ricerca di Teheran, rischia sulla carta di provocare una contaminazione su vasta scala anche se, secondo l’AIEA e le autorità saudite, non si rilevano per ora anomalie nei livelli di radioattività.
In concreto, però, il pericolo più immediato riguarda la possibile dispersione di esafluoruro di uranio, che a contatto con l’acqua produce acido fluoridrico, un composto chimico altamente tossico in caso di inalazione o contatto diretto.