L’attacco ordinato dal presidente Donald Trump contro tre siti nucleari iraniani ha acceso un incendio politico a Washington, spaccando il Congresso e scuotendo le fondamenta costituzionali del rapporto tra potere esecutivo e legislativo.
Sabato sera, mentre il presidente annunciava dalla Casa Bianca il “completo successo” dell’operazione, i telefoni dei parlamentari squillavano senza sosta, le dichiarazioni fioccavano e la crisi interna alla politica americana prendeva forma in tempo reale.
In un discorso televisivo trasmesso in prima serata, Trump ha affermato che “i principali impianti di arricchimento nucleare dell’Iran sono stati completamente e totalmente distrutti” e ha lanciato un monito: “Se l’Iran non farà la pace, i prossimi attacchi saranno ben più gravi”. Poi, sui social, ha celebrato: “Non c’è un altro esercito al mondo che avrebbe potuto fare questo. Ora è il momento della pace”.
I repubblicani interventisti hanno applaudito. Lindsey Graham ha parlato di “decisione giusta”, mentre Ted Cruz ha sottolineato che l’operazione ha “precluso la possibilità che l’Iran corresse a costruire un arsenale nucleare”. Il presidente della Camera Mike Johnson ha affermato che l’azione “dimostra che Trump fa sul serio” e ha rivendicato coerenza nella sua linea anti-nucleare.
Ma l’altra metà del Congresso, e non solo, ha gridato alla violazione costituzionale. Il leader della minoranza alla Camera, Hakeem Jeffries, ha attaccato: “Trump ha ingannato il Paese sulle sue intenzioni, non ha ottenuto l’autorizzazione del Congresso e ora rischia di coinvolgerci in una guerra potenzialmente disastrosa”. Alexandria Ocasio-Cortez ha rilanciato: “È un chiaro motivo di impeachment”. Bernie Sanders, durante un comizio in Oklahoma, ha dichiarato tra gli applausi: “Gravemente incostituzionale. Solo il Congresso può portare l’America in guerra”.
Al centro del conflitto istituzionale c’è la War Powers Resolution del 1973, che impone al presidente di ottenere l’approvazione del Congresso per interventi militari, salvo casi di difesa immediata. Per molti, questo non era uno di quei casi. Il senatore Tim Kaine ha già annunciato un voto entro venerdì per una risoluzione che imponga limiti stringenti all’azione presidenziale.
Anche tra i repubblicani non sono mancate le crepe. Thomas Massie, libertario del Kentucky, ha commentato lapidario: “Non costituzionale”. Insieme al democratico Ro Khanna ha presentato una risoluzione bipartisan per vietare ulteriori azioni contro l’Iran senza un’esplicita autorizzazione del Congresso. “Il Congresso – ha detto Khanna al programma domenicale di approfondimento politico Face the Nation – deve tornare immediatamente a Washington per fermare questa escalation. Le nostre truppe sono in pericolo”.
La stessa preoccupazione è stata espressa dal senatore Mark Warner, vicepresidente della Commissione Intelligence, che ha riconosciuto l’Iran come “minaccia reale”, ma ha criticato l’assenza di una strategia e la mancata consultazione del Congresso. Anche il leader democratico del Senato Chuck Schumer ha avvertito: “Il pericolo di una guerra più ampia, più lunga e più devastante è ora drammaticamente aumentato”.
Tra i democratici progressisti, la deputata Rashida Tlaib ha messo in guardia i colleghi: “Non commettete un altro errore trascinando il nostro Paese in un’altra guerra”. Anche il deputato Jim McGovern ha chiesto al Congresso di rientrare d’urgenza per votare la risoluzione Kaine-Massie.
Intanto Trump continua a cercare la copertura politica nel suo partito. “Grande unità nel GOP, forse come mai prima”, ha scritto su Truth Social. In pubblico ha sfoggiato il tradizionale cappellino rosso “Make America Great Again”, circondato nella Situation Room dai fedelissimi, tra cui il vicepresidente J.D. Vance, che ha cercato di bilanciare i toni: “Non siamo in guerra con l’Iran, ma con il suo programma nucleare”.
Tuttavia, nella galassia MAGA si sono aperte crepe difficili da ricomporre. Marjorie Taylor Greene ha dichiarato: “Questa non è la nostra battaglia”. Steve Bannon ha parlato di una “America stanca di guerre”. Charlie Kirk e Matt Gaetz, pur sostenendo la decisione del presidente, hanno cercato di rassicurare la base: “Come con l’attacco a Soleimani, è stato un colpo mirato, non l’inizio di una guerra”. Una narrazione calibrata per non alienare gli elettori anti-interventisti che avevano premiato Trump nel 2016 proprio per la sua rottura con la tradizione neocon.
Al contrario, il senatore John Fetterman, democratico della Pennsylvania, ha espresso pieno sostegno all’attacco: “L’Iran è il principale sponsor del terrorismo e non può avere capacità nucleari. Onore alle nostre forze armate”. Una posizione condivisa anche da alcuni democratici moderati, che hanno sollevato obiezioni legali pur appoggiando i raid.
Il Congresso ora si prepara a una settimana di fuoco. La risoluzione sui poteri di guerra sarà messa al voto. I democratici vogliono forzare una discussione pubblica sulla legittimità dell’intervento. Ma Trump, per ora, si affida al successo tattico dell’operazione e alla fedeltà del suo partito.
Ma le domande restano e per ora non trovano risposta: Trump ha violato la Costituzione o ha solo ereditato una prassi ormai tollerata? E se l’Iran reagisce, quanto potrà ancora definirsi “chirurgico” l’attacco americano?
Anche fuori dal Congresso, il dibattito tra analisti e think tank è tutt’altro che pacificato. Secondo Rosemary Kelanic, direttrice del programma per il Medio Oriente presso Defense Priorities, l’attacco potrebbe sortire l’effetto opposto a quello dichiarato dalla Casa Bianca. “La triste verità – ha spiegato al New York Times – è che, colpendo l’Iran, gli Stati Uniti hanno reso molto più probabile che Teheran voglia davvero dotarsi di armi nucleari”. Per Kelanic, anche ammesso che i raid abbiano effettivamente distrutto tutti gli impianti, “l’Iran sarà ora più motivato che mai a ricostruire le sue capacità e a passare dall’arricchimento dell’uranio alla bomba vera e propria”. In sostanza, l’attacco rischia di trasformare un programma potenzialmente reversibile in una corsa accelerata verso l’atomica.
Una tesi che Matthew Kroenig, analista dell’Atlantic Council, respinge con fermezza. Intervistato dallo stesso quotidiano newyorkese, ha definito improbabile che Teheran voglia ricominciare da capo dopo un colpo di tale portata. “L’Iran ha speso miliardi di dollari e decenni di isolamento diplomatico per arrivare a questo punto”, ha osservato. “E il risultato? Sanzioni, un raid devastante e nessun vantaggio strategico”. Per Kroenig, sarebbe illogico ripetere lo stesso errore: “Non vedo perché dovrebbero riavviare quel programma, anche perché sanno che, se lo facessero, gli Stati Uniti potrebbero colpirli di nuovo”.
Due visioni opposte che raccontano, in fondo, la stessa incertezza: nessuno, a Washington o a Teheran, può dire oggi cosa succederà domani.
Nel vuoto crescente tra diritto e forza, tra strategia e conseguenze impreviste, l’America rischia ora non solo un nuovo conflitto, ma una trasformazione profonda della sua stessa democrazia. Dove le guerre iniziano con un post, e il Congresso arriva sempre dopo.