La nuova settimana in Medio Oriente si apre così come si era chiusa quella precedente – sotto le bombe incrociate di Israele e Iran, giunti al quarto giorno consecutivo di guerra. Una raffica di razzi dei pasdaran si è abbattuta nelle prime ore di lunedì sullo Stato ebraico, attivando le sirene antiaeree a Tel Aviv e Haifa. Almeno cinque persone sarebbero rimaste uccise e decine ferite, secondo i primi dati diffusi dai soccorritori – il che porta il bilancio ufficiale delle vittime israeliane a 24, e quello dei feriti ad oltre 300 .
Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno replicato nelle ore successive prendendo di mira Teheran e rivendicando di aver ottenuto la “superiorità aerea” sui cieli della capitale, con il premier Benjamin Netanyahu dettosi convinto di essere “sulla strada della vittoria”.
Il ministero della Sanità iraniano ha aggiornato ad almeno 224 il bilancio dei morti dall’inizio degli attacchi, dichiarando che oltre il 90% delle vittime sarebbero civili. Più di 1.200 persone risultano ricoverate.
La disparità nel numero di vittime – e nella più generale capacità di difendersi – ha in parte smussato il bellicismo di Teheran, che nelle ultime ore sembra spingere per una tregua mediata dagli USA. “Israele deve porre fine alla sua aggressione, altrimenti (…) le nostre risposte continueranno“, ha dichiarato lunedì il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi su X. “Basta una telefonata da Washington per mettere a tacere qualcuno come Netanyahu. Questo potrebbe aprire la strada a un ritorno alla diplomazia”.
Secondo quanto scrive Reuters citando fonti regionali, Teheran si sarebbe pertanto appellata al Qatar, all’Arabia Saudita e all’Oman affinché facciano pressione su Trump, in modo che questi convinca Israele a un cessate il fuoco immediato. In cambio, ii pasdaran avrebbero promesso maggiore “flessibilità” nei negoziati sul nucleare. Domenica a Muscat, capitale dell’Oman, era previsto il sesto round di colloqui sul tema, saltati proprio a causa degli attacchi israeliani.
In un’intervista ad ABC News, domenica Trump ha precisato che gli Stati Uniti non sono attualmente coinvolti nelle operazioni israeliane, ma che potrebbero intervenire – specialmente in caso di attacchi a basi militari o rappresentanze diplomatiche USA nel Golfo, o qualora l’Iran decidesse di chiudere il traffico marittimo nello Stretto di Hormuz.
“Non siamo coinvolti. È possibile che lo saremo. Ma al momento non lo siamo”, le parole del presidente USA, che pur avendo previsto “attacchi ancora più brutali” in caso di mancato accordo sul nucleare in extremis al contempo avrebbe respinto una proposta israeliana per assassinare l’ayatollah Ali Khamenei. “L’obiettivo era destabilizzare definitivamente il regime,” ha riferito una fonte interna all’amministrazione, “ma la Casa Bianca ha giudicato l’operazione troppo rischiosa, con il potenziale di far sprofondare nel caos l’intero Medio Oriente.”
Secondo indiscrezioni non confermate provenienti da fonti israeliane, la massima guida religiosa-politica dell’Iran avrebbe trovato rifugio assieme alla sua famiglia in un bunker sotterraneo a Lavizan, nella zona nord-orientale di Teheran.
Finora le operazioni israeliane, agevolate dall’intervento di agenti del Mossad (servizio segreto estero di Tel Aviv) in territorio iraniano, hanno portato alla morte di diversi esponenti apicali dell’apparato militare e nucleare iraniano. Tra i decessi confermati ci sono quelli del Capo di Stato Maggiore Mohammad Hossein Bagheri, ucciso nella prima ondata di raid, e del comandante delle Guardie Rivoluzionarie Hossein Salami, considerato uno degli uomini più vicini a Khamenei.
Neutralizzati anche Gholamali Rashid, responsabile del quartier generale interforze, Ali Hajizadeh, capo della forza aerospaziale del Corpo, e Mohammad Kazemi, numero uno dell’intelligence dei Pasdaran. Secondo fonti interne israeliane, sarebbero stati uccisi anche almeno 14 scienziati nucleari di primo piano, tra cui Fereydoun Abbasi, ex direttore dell’Agenzia Atomica iraniana, già sopravvissuto a un attentato nel 2010.
Il senatore democratico Tim Kaine ha intanto annunciato una risoluzione che vuole obbligare la Casa Bianca a passare dal Congresso per autorizzare l’uso della forza contro l’Iran – cosa che peraltro il governo è già formalmente obbligato a fare. “Non è nel nostro interesse nazionale entrare in guerra con l’Iran, a meno che non sia strettamente necessario per difendere gli Stati Uniti”, ha detto Kaine.
Il climax missilistico degli ultimi giorni non ha risparmiato nemmeno le rappresentanze diplomatiche. Domenica sera, un razzo iraniano sarebbe scoppiato nei pressi del consolato statunitense a Tel Aviv, secondo quanto riferito dall’ambasciatore USA a Gerusalemme Mike Huckabee. Nessun ferito e solo qualche danno minore, anche se precauzionalmente le sedi diplomatiche americane a Tel Aviv e Gerusalemme resteranno chiuse fino a nuovo ordine.
A crescere d’intensità, oltre ai combattimenti, è anche la pressione diplomatica per un cessate il fuoco. L’Alta rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera, Kaja Kallas, ha convocato per martedì una riunione d’urgenza dei ministri degli Esteri dei Ventisette per coordinare gli sforzi di mediazione con Tel Aviv e Teheran e cercare una via negoziale sul nodo nucleare iraniano.
Tra i leader più alacri c’è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che lunedì mattina ha dialogato telefonicamente con l’omologo iraniano Masoud Pezeshkian, offrendosi come “facilitatore” per una tregua e per rilanciare il negoziato sul nucleare. Poco dopo il leader di Ankara ha sentito anche Vladimir Putin, con il quale ha convenuto sulla necessità di “una cessazione immediata delle ostilità e della risoluzione delle questioni controverse, comprese quelle relative al programma nucleare iraniano, esclusivamente con mezzi politici e diplomatici”, si legge in una dichiarazione del Cremlino.
La preoccupazione, in ambienti Nato, è che accerchiare eccessivamente i pasdaran rischi di spingerli a rispondere con mezzi non convenzionali, dal terrorismo alle armi di distruzione di massa. Un attacco nucleare rudimentale, o persino una “bomba sporca” fatta esplodere in prossimità del porto di Haifa, è uno scenario che gli apparati di sicurezza non escludono più.
“Il motivo per cui non siamo già in una guerra mondiale,” ha dichiarato un alto funzionario europeo, “è che l’Iran ha capacità convenzionali limitate.” E il rischio di un’escalation nucleare è tornato al centro del dibattito dopo che l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha confermato che Teheran dispone di uranio arricchito al 60%, soglia prossima a quella necessaria per la realizzazione di un ordigno nucleare (stimata intorno al 90%).
Al momento, Israele rivendica di avere libertà operativa fino ai cieli sopra Teheran. Ma la distruzione dei siti nucleari sotterranei, come quello di Fordow, resta un’operazione che solo gli Stati Uniti sarebbero in grado di tentare. E anche in quel caso, come ha scritto l’ex premier israeliano Ehud Barak, “neppure gli americani potrebbero ritardare davvero il programma nucleare iraniano per più di qualche mese”.
Barak ha aggiunto che l’unico modo per impedire a Teheran di dotarsi dell’arma atomica sarebbe “la dichiarazione di guerra al regime stesso fino al suo rovesciamento”.
Ma Trump, come sottolinea il Financial Times, per ora insiste sulla necessità di una soluzione diplomatica, la cui condizione propedeutica è che Teheran firmi l’accordo sul nucleare e rinunci al suo programma nucleare. Dopotutto sarebbe una beffa storica se lo stesso uomo presentatosi all’America come “pacificatore” finisse per replicare il più banale degli stereotipi bellici USA – un’altra guerra in Medio Oriente.