Una fondazione “neutrale”, concepita nei circoli ristretti dell’apparato di sicurezza israeliano, con il monopolio nella distribuzione “umanitaria” nella Striscia di Gaza che, secondo l’ONU, lo Stato ebraico ha da tempo trasformato in uno strumento di pressione militare.
I paradossi della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), il nuovo organismo creato sotto l’egida di Tel Aviv e Washington, ha appena iniziato ad operare ma ha già sollevato un polverone. Lanciata in risposta al blocco prolungato imposto da Israele su Gaza da oltre due mesi, la GHF promette sulla carta di sfamare oltre un milione di palestinesi. Ma per molte organizzazioni umanitarie si tratta solo di una cinica operazione di facciata.
Sullo sfondo rimane infatti una crisi umanitaria che ha raggiunto ormai proporzioni catastrofiche: secondo le ultime stime ONU, il 93% della popolazione gazawi versa in condizioni di insicurezza alimentare acuta, con un bambino su tre a rischio denutrizione grave. In totale, un civile palestinese su cinque sarebbe già esposto a livelli di fame estrema. Il blocco israeliano imposto dal 2 marzo scorso – anche se poi parzialmente allentato – ha ridotto al lumicino l’ingresso di beni essenziali, tra cui cibo, carburante per trasportarlo e garantire forniture elettriche, ma anche medicinali e forniture sanitarie di base.
Il governo israeliano si è costantemente rifiutato di riaprire di corridoi umanitari sotto egida ONU, proponendo invece una soluzione alternativa sotto stretto controllo. La GHF, appunto.
A capo della “fondazione” era stato originariamente designato Jake Wood, ex Marine statunitense e fondatore dell’ONG statunitense Team Rubicon, specializzata nella gestione delle calamità naturali. Ma è stato lo stesso Wood a fare un passo indietro domenica scorsa (meno di 24 ore prima della distribuzione dei primi aiuti), sostenendo che la GHF non sarebbe stata in grado di rispettare i principi di “umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”.
Il piano iniziale, annunciato il 15 maggio, prevede l’istituzione di alcuni “siti di distribuzione sicuri” in aree selezionate di Gaza per fornire una razione minima di alimenti a circa 1,2 milioni di persone. In prospettiva, la GHF punta quindi a coprire l’intero territorio dell’enclave costiera. La sicurezza dei convogli e dei centri di smistamento sarà affidata a contractor privati, in coordinamento diretto con le forze armate israeliane.
Ma è proprio l’architettura ibrida ad alimentare le perplessità. “La GHF vincola l’aiuto umanitario al raggiungimento di obiettivi politici e militari”, ha denunciato il sottosegretario ONU per gli Affari umanitari Tom Fletcher al Consiglio di Sicurezza. “Trasforma la fame in un’arma negoziale. È un’operazione di facciata. Un diversivo deliberato. Un paravento che legittima nuove violenze e ulteriori sfollamenti”.
Anche Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è scettico. “Non possiamo operare all’interno di un meccanismo che comprometta i principi fondamentali dell’azione umanitaria: imparzialità, neutralità, indipendenza”, si legge in una dichiarazione ufficiale. Undici ONG internazionali, tra cui Oxfam e Save the Children, hanno sottoscritto un documento congiunto che boccia senza mezzi termini il progetto: “Un’iniziativa gestita da ex militari e uomini d’affari legati ai governi occidentali, creata in collaborazione con Israele, in totale assenza di consultazione o partecipazione palestinese”.
Le accuse si estendono anche alla genesi dell’intera operazione. Un’inchiesta del New York Times ha rivelato che la GHF sarebbe nata a fine 2023 durante riunioni riservate tra ufficiali israeliani, investitori occidentali e funzionari vicini al governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu. Ci sono ad esempio i nomi del venture capitalist israelo-americano Michael Eisenberg, quello di Yotam HaCohen, ex consulente strategico divenuto membro del COGAT (l’ente militare israeliano che amministra i Territori occupati), e quello di Liran Tancman, investitore tech con incarichi nello stesso organismo. A loro si è affiancato Philip F. Reilly, un oscuro ex alto dirigente della CIA con trascorsi nella formazione di paramilitari in America Latina e nell’Afghanistan post-11 settembre.
Reilly, oggi a capo della società di sicurezza privata S.R.S., sarebbe stato selezionato personalmente dal generale Roman Gofman – stretto consigliere militare del premier israeliano – per gestire la sicurezza della distribuzione a Gaza. Secondo fonti interne citate dal quotidiano d’opposizione Haaretz, la scelta sarebbe avvenuta in modo del tutto arbitrario, senza gara d’appalto né beneplacito da parte dello Shin Bet (i servizi segreti esteri di Tel Aviv) o dell’IDF, ma con un ruolo centrale dell’ufficio del primo ministro e del ministro israeliano degli Affari Strategici Ron Dermer (nato in Florida).
Proprio come il manoscritto Voynich, ogni tentativo di decifrare la GHF non fa che aggiungere un nuovo enigma. La fondazione ad esempio risulta registrata in Delaware – e non in Svizzera, come pure era stato annunciato. Reilly stesso ha costituito simultaneamente le due entità chiave dell’operazione: la GHF e la S.R.S., affidandosi allo stesso avvocato di Chicago (James H. Cundiff, affiliato allo studio legale McDermott Will and Emery) e condividendo a lungo lo staff incaricato delle pubbliche relazioni. Solo recentemente le due strutture si sarebbero formalmente separate. Secondo Jake Wood, la fondazione avrebbe ricevuto un contributo iniziale da “imprenditori non israeliani” e una promessa di finanziamento superiore ai 100 milioni di dollari da parte di un “Paese dell’Europa occidentale”, il cui nome però rimane un mistero.
Anche operativamente, i dubbi sulla GHF non sono pochi. Gaza dispone attualmente di 400 punti di distribuzione alimentare già attivi. L’idea di limitarne il numero a pochi hub – situati solo nel sud e nel centro della Striscia – è ritenuta dagli addetti ai lavori come un cinico espediente per incentivare lo sfollamento dei residenti del nord, costretti a migrare per ottenere una razione di cibo. “È una strategia di spostamento forzato mascherata da intervento umanitario”, accusano le ONG. “Anche se il piano fosse attuato, i volumi previsti restano drasticamente inferiori alle necessità effettive della popolazione”.
La rete viaria, in gran parte distrutta da 19 mesi di bombardamenti, rende arduo anche solo raggiungere i centri di smistamento, col risultato che le persone ferite o disabili rischiano di rimanere escluse del tutto dalla rete distributiva. “Il problema non è logistico. È la fame imposta intenzionalmente”, denunciano le undici ONG.
Dal canto suo, Israele insiste sulla necessità di impedire che Hamas intercetti gli aiuti e accusa le organizzazioni umanitarie internazionali di essere state infiltrate da gruppi terroristici antisemiti. Ma le agenzie dell’ONU negano: “La distribuzione è rigidamente controllata. Le deviazioni sono marginali. Il blocco alimentare è una scelta politica”.
Il conflitto, scoppiato il 7 ottobre 2023 con l’attacco di Hamas che ha causato 1.200 vittime in Israele e il rapimento di 251 persone, ha già provocato – secondo le autorità sanitarie di Gaza – oltre 53.000 morti nella Striscia. Tel Aviv rivendica l’uccisione di 20.000 miliziani e accusa Hamas di utilizzare la popolazione civile come scudo umano, operando da ospedali, scuole e moschee.