“Chi controlla il passato controlla il futuro”. Il Cremlino conosce bene l’iconico adagio orwelliano. E sembra averlo messo in pratica nel giorno in cui la Russia commemora la Vittoria (pobeda) per antonomasia – quella ottenuta ottant’anni fa dall’URSS contro i nazifascisti. Con la glorificazione della stoica resistenza sovietica servita ancora una volta a legittimare le guerre – e delegittimare i nemici – di oggi.
Su una Piazza Rossa addobbata a festa, circondato da una ventina di capi di Stato e di governo – tra cui il presidente cinese Xi Jinping, il venezuelano Nicolas Maduro, il brasiliano Lula, il serbo Aleksandar Vučić e il premier slovacco Robert Fico (unico leader UE presente a Mosca) – Vladimir Putin ha rivendicato la memoria di quei giorni come fondamento dell’identità russa contemporanea.
“I nostri padri, nonni e bisnonni hanno salvato la Patria e ci hanno lasciato il dovere di difenderla, di restare uniti, di proteggere la nostra storia millenaria, la cultura, i valori tradizionali“, ha detto il leader russo in un discorso durato poco meno di una decina di minuti.
Poi un affondo più diretto: “La Russia è stata e resterà una barriera invalicabile contro nazismo, russofobia e antisemitismo“. Guai a pensarla altrimenti: dal 2020 il Codice penale russo prevede fino a cinque anni di carcere per il reato di “riabilitazione del nazismo” o diffusione generica di “falsità” sul ruolo dell’URSS – ad esempio menzionando il patto Molotov-von Ribbentrop sulla spartizione della Polonia tra Hitler e Stalin.
Il leader del Cremlino ha definito il Giorno della Vittoria come “la festa più importante per ogni cittadino russo“, ricordando come la pace del dopoguerra fu ottenuta “a caro prezzo” da un’intera generazione, quella dei veterani, che ha dimostrato “sincera devozione alla Patria, determinazione a difendere il Paese, e i valori dell’umanesimo e della giustizia“.
Per l’occasione, nel cuore della capitale hanno marciato più di 11.500 uomini in divisa – forze armate, agenti del servizio di sicurezza interno (FSB), Guardia nazionale, unità del Ministero per le emergenze, e oltre 1.500 reduci del fronte ucraino. Accanto a loro, anche le delegazioni militari di tredici Paesi – tra cui Cina, Egitto, Vietnam, Turkmenistan, Kirghizistan, Laos e Mongolia.
All’ombra della Cattedrale di San Basilio sfilano gli altri veri protagonisti inanimati della guerra in Ucraina: veicoli BRM-1K per ricognizione da combattimento, cannoni semoventi da 152 mm “Giatsint-K” e “Malva”, e una gamma di droni da attacco e sorveglianza come gliu Orlan-10, Orlan-30, Zala, Lancet-51 e 52, Harpy e Geran. A completare lo sfoggio bellico, missili balistici Iskander, sistemi Tornado-S e lanciafiamme termobarici TOS-2 Tosochka. A sorvegliare i cieli le pattuglie acrobatiche “Cavalieri russi” e “Rondoni” affiancate da più minacciosi caccia Su-30 e MiG-29.

Eppure è una Giornata della Vittoria dolceamara per i tanti russi che, fino a poche settimane fa, si auspicavano per il 9 maggio l’annuncio della fine delle ostilità e di un graduale ritorno alla normalità. La guerra va avanti ma, ha spiegato Putin, godrebbe ancora di un vastissimo supporto consenso popolare: “La verità e la giustizia sono dalla nostra parte. Dobbiamo difendere l’onore dei soldati e dei comandanti dell’Armata Rossa.”
I sondaggi sembrano dipingere un quadro più complesso: secondo una rilevazione condotta dal Levada Center ad aprile, solo il 30% dei russi intervistati si dice favorevole al proseguimento del conflitto, il dato più basso dall’inizio dell’invasione e che scende al 18% nella fascia di età tra i 18 e i 39 anni (mentre sale al 40% tra gli over 55). Il 61% degli intervistati si dice invece favorevole all’avvio di negoziati con Kyiv, mentre il 40% ritiene che la guerra abbia causato più danni che benefici alla Russia.
Nel suo breve discorso, Putin non ha menzionato nemmeno una volta la parola “Occidente”. Solo un anno fa, il 72enne leader pietroburghese aveva sfruttato il palco nella Piazza Rossa che dà le spalle ai grandi magazzini Tsum per inveire proprio contro gli occidentali, definiti “colonialisti, ipocriti e revanscisti” che “cercano di distorcere la verità sulla Seconda Guerra Mondiale”.
Invero, anche quest’anno Putin ha voluto ricordare che senza la stoica resistenza sovietica Hitler avrebbe potuto dar loro filo da torcere ancora per mesi, forse anni. E lo ha fatto ricordando che l’apertura del secondo fronte europeo (coinciso con lo sbarco alleato in Normandia del 1944) arrivò solo dopo le “battaglie decisive combattute sul nostro territorio“.
A margine delle celebrazioni, occhi puntati sul vertice informale tra Putin e Xi. La visita del presidente cinese – in occasione del Giorno della Vittoria – ha riacceso i riflettori sul progetto del gasdotto Power of Siberia 2, il corridoio energetico pensato per convogliare il metano siberiano verso la Cina attraverso la Mongolia.
Proposto da Mosca già nel 2022 per compensare (in parte) la chiusura dei mercati europei, l’accordo non è mai stato firmato: Pechino, finora, ha insistito per ricevere il gas al prezzo calmierato interno russo, tra i 70 e i 100 dollari per metro cubo. Secondo fonti citate da Bloomberg, la leadership cinese sarebbe disposta a trattare un prezzo intermedio fra la tariffa interna e quella già applicata all’attuale gasdotto Power of Siberia (tra $150 e $180), giunto nel 2023 alla piena capacità di 38 miliardi di metri cubi annui.
Ma un’intesa definitiva non è attesa a breve. I negoziati restano aperti, anche perché Pechino spingerebbe per un tracciato alternativo che escluda la Mongolia. Il mercato cinese è una delle ultime sponde strategiche per Gazprom, dato che le esportazioni verso l’Europa sono crollate dai 150 miliardi di metri cubi pre-guerra agli attuali 40 miliardi (stime BCS), e con Bruxelles decisa a chiudere ogni residua dipendenza da Mosca entro il 2027.
Ma nemmeno in Estremo Oriente gli scenari sono rassicuranti: anche se Power of Siberia 2 e le altre pipeline in progetto dovessero entrare in funzione a pieno regime, Mosca riuscirebbe a esportare verso la Cina appena 98 miliardi di metri cubi l’anno – meno di due terzi delle forniture un tempo garantite al Vecchio Continente.
Mentre a Mosca si celebrava la continuità imperiale, Bruxelles metteva mano al portafoglio: la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato venerdì lo stanziamento di un miliardo di euro, proveniente dagli interessi maturati sugli asset russi congelati, per rafforzare l’industria bellica ucraina. “Questi fondi andranno direttamente alle aziende della difesa ucraine – ha dichiarato l’Alta rappresentante Kaja Kallas – per garantire forniture militari nei prossimi mesi, che saranno cruciali”.
Dall’inizio del conflitto, sono circa 300 i miliardi di euro di asset congelati a carico della Banca centrale russa, la maggior parte dei quali depositate in istituzioni finanziarie europee. L’idea di finanziare lo sforzo bellico ucraino o la ricostruzione del Paese aggredito con quel denaro è stata più volte denunciata da Mosca come un atto di “pirateria finanziaria”.