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Attentato ad Ankara: chi cerca di sabotare la tregua con il PKK?

La mattanza allo stabilimento TUSAŞ arriva pochi giorni dopo l'apertura di Erdoğan a Öcalan

Gennaro MansibyGennaro Mansi

Relatives mourn before the coffin of Cengiz Coskun, one of the victims of a terror attack at the (TUSAS) Turkish Aerospace and Aviation Center headquarter the previous day, during his funeral ceremony in Ankara, Turkey, 24 October 2024 ANSA/EPA/NECATI SAVAS

Time: 3 mins read

Un tempismo sospetto. Di quelli che spesso precedono – o seguono – le grandi svolte della politica turca.

Martedì Devlet Bahçeli, alleato del presidente Recep Tayyip Erdoğan e leader del partito nazionalista MHP, aveva sorpreso tutti lanciando un appello per far cessare l’isolamento su Abdullah Öcalan e consentire al leader del PKK di annunciare in parlamento l’abbandono delle armi. Ventiquattr’ore dopo, la Turchia è stata scossa da un attentato contro lo stabilimento TUSAŞ (Industrie Aerospaziali Turche) vicino la capitale Ankara: cinque i morti, più i due killer.

I terroristi hanno colpito il quartier generale dell’azienda statale a Kahramankazan, dove oltre 10.000 dipendenti sfornano ogni anno centinaia di aerei civili e militari, veicoli aerei senza pilota e altri sistemi di difesa impiegati in una pluralità di scenari bellici.

La circostanza che nel mirino degli esecutori sia finito uno dei principali pilastri del complesso militare-industriale turco lascia pochi dubbi sul movente. Qualcuno potrebbe aver voluto sabotare la pacificazione proposta dall’ex “lupo grigio” Bahçeli (e quasi certamente avallata in prima persona dal “sultano”).

Ma il boicottaggio sembra fallito. Nello stesso giorno dell’attentato ad Ankara, Öcalan, in carcere dal 1999 e in isolamento da tre anni e mezzo, è stato eccezionalmente autorizzato a incontrare il nipote Ömer Öcalan, deputato della sinistra filo-curda del Partito Democratico dei Popoli (HDP). Nessun gesto di pietà filantropica. Gli addetti ai lavori sanno che la dura prigionia del leader curdo si alleggerisce solo quando ad Ankara serve il suo aiuto.

Öcalan ha sibillinamente dichiarato di essere disposto a favorire un “processo legale e politico”, ma solo in presenza delle “condizioni giuste”. Che stavolta potrebbero avere molto a che fare con lo scenario internazionale e con un Medio Oriente in ebollizione per l’escalation militare tra Israele e l’asse della “resistenza” in Palestina, Libano, Siria, Yemen, e Iran.

Con Teheran e i suoi alleati regionali sulla difensiva e l’ipotesi di un Trump-bis sempre più concreta – questa la tesi del politologo Yusuf Karadaş – Tel Aviv potrebbe decidere di attaccare il regime degli ayatollah, ultima grande potenza anti-sionista della regione. In questo contesto, Erdoğan sembra determinato a non subire passivamente gli eventi e sfruttare l’occasione per affrontare l’annosa questione curda. Dopotutto il Rojava rimane il principale fattore di rischio geopolitico per la Turchia, aggravato dalla rete alleanze del PKK con le milizie sciite in Iraq.

Karadaş spiega che Ankara potrebbe aver accelerato il processo di pacificazione in previsione di uno scenario in cui gli Stati Uniti spingano la Turchia a schierarsi apertamente contro i pasdaran – esponendo Ankara al rischio di ritorsioni che potrebbero sfruttare il ventre molle del separatismo curdo.

Flags with a picture of the jailed Kurdish militant leader Abdullah Ocalan and of modern Turkey’s founder Mustafa Kemal Ataturk (L) in Istanbul, Turkey, June 8, 2015. REUTERS/Murad Sezer

Qualche che sia il movente, Erdoğan stavolta fa sul serio. Come dimostra la decisione di affidare la gestione del processo non al suo movimento – il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) – ma proprio a Bahçeli, nel classico scenario politologico del Nixon goes to China: così come ci volle uno dei presidenti USA più arcignamente anti-comunisti a normalizzare le relazioni con la Cina di Mao nel 1979, allo stesso modo l’ultra-nazionalismo del 76enne lo rendono immune da accuse di tradimento della patria per aver negoziato con il PKK.

Ma la scelta nasce anche dalla diffidenza del popolo curdo verso Erdoğan, reo di aver tradito le promesse del processo di pace del 2013-15, quando il “sultano” accennò una pacificazione per scongiurare i rischi di autonomia curda in Siria e rafforzare il proprio potere presidenziale.

E fa sul serio anche Bahçeli, che ha ribadito che il progetto di “unità nazionale e fratellanza” proseguirà nonostante l’attentato, chiunque e per qualsiasi motivo l’abbia commesso. Dopotutto anche in passato, mentre erano in corso negoziati segreti tra Stato e PKK, nessuna delle due parti aveva sotterrato le rispettive asce di guerra (e la Turchia stessa stavolta nelle scorse ore ha risposto con decine di raid anti-curdi in Iraq e Siria, causando 16 morti).

Karadaş crede che, a differenza di altri tentativi, stavolta l’obiettivo sia creare una base giuridica e coinvolgere anche l’opposizione kemalista del CHP. “L’attentato contro la TUSAŞ potrebbe essere stato condotto dal PKK per dimostrare la sua capacità di colpire le istituzioni, oppure potrebbe essere una continuazione della lotta tra cricche all’interno dello Stato o un messaggio lanciato da altri attori regionali”, spiega ancora Karadaş.

Qualcuno ha insomma deciso di giocare le proprie carte sul tavolo di un Medio Oriente che brucia. E non è detto che chi ha aperto la partita abbia il controllo del finale.

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Gennaro Mansi

Gennaro Mansi

Giornalista, si occupa principalmente di affari internazionali e di rapporti tra Occidente e Oriente A journalist with a background in comparative law, Gennaro mainly covers world affairs and West-East relations

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