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“Effetto Taylor Swift”: un bene per i dem, un male per la democrazia?

Il sostegno della popstar a Kamala Harris solleva dubbi sull'autenticità dell'attivismo moderno

Beatrice Bonini e Giammaria GottibyBeatrice Bonini e Giammaria Gotti
L’effetto Taylor Swift colpisce gli elettori: in 338.000 su vote.org

Kamala Harris, a sinistra, e Taylor Swift, a destra (ANSA)

Time: 5 mins read

A circa un mese dal dibattito presidenziale Harris-Trump e a poche settimane dal voto del 5 novembre, che cosa rimane dell’endorsement di una delle donne più potenti del mondo, Taylor Swift?

Dopo il post social sull’account Instagram della cantante, fiumi di inchiostro sono stati spesi per valutare il possibile impatto di quello che, nei fatti, è stata una foto con un gatto e un messaggio da 300 parole. Negli Stati Uniti sono due le domande principali che i commentatori si pongono quando valutano l’impatto di un determinato evento sulle elezioni. La prima: quanti voti verranno “mossi” (mobilizing votes), cioè quante persone che non sarebbero andate a votare decideranno di farlo dopo il suo post? La seconda: quanti voti verranno “spostati” (moving votes), ossia quante persone che avrebbero votato Trump, voteranno Harris? Quantificare questi effetti è pressoché impossibile da un punto di vista scientifico. Per questo gli studi accademici sul tema sono pochi, e ancora non c’è consenso tra gli studiosi.

Se dimostrare un nesso causale è estremamente complicato, possiamo comunque riflettere su alcuni numeri. Nel caso di Swift, nelle 24h dopo la pubblicazione del post, il sito vote.org – de lei indicato nel post – ha visto più di 400,000 visitatori arrivati direttamente dal link della cantante, circa 10 volte il traffico medio del sito su scala settimanale. Non possiamo però sapere quante registrazioni al voto sono arrivate da questi click: il sito vote.org citato da Swift, infatti, non permette di registrarsi ma fornisce solamente i link ai singoli siti di registrazione ufficiale di ogni stato.

È bene inoltre ricordare che già in occasione delle elezioni di mid-term del 2018, Taylor Swift si schierò pubblicamente a favore del candidato democratico al Senato per il Tennessee, al dichiarato fine di contrastare la candidata repubblicana antiabortista. La cantante spiegò che in passato era stata “riluttante nel dare voce alle sue opinioni politiche”, ma che era giunto il momento di schierarsi. Il Taylor Swift effect fu, ancora una volta, quello di aumentare le visite al sito e di aver contribuito ad aumentare il numero di cittadini registrati nel Tennessee  (specialmente dei giovani), ma come noto – la candidata repubblicana ebbe comunque la meglio.  Il documentario “Miss Americana” – dedicato a “vita e miracoli” della cantautrice statunitense – descrive chiaramente origini e conseguenze di questo endorsement: i conflitti tra Taylor e il suo management, preoccupato di una tempesta repubblicana contro la cantante; il clamore mediatico suscitato dal post; Trump che promette che ascolterà “un po’ meno” la sua musica; il presunto boom di registrazioni al voto; il risultato delle elezioni che rimane quello previsto: la vittoria dei repubblicani.

Taylor Swift’s endorsement message on Instagram – Credit: YouTube CBS News

Ma se il post della “Childless Cat Lady” finirà per essere di nuovo un “much ado about nothing”, perché gli endorsement continuano a ricoprire le pagine dei giornali e a fare notizia? Probabilmente perché l’intrattenimento vende più della politica? Forse. Ci sono però due aspetti che hanno una grande rilevanza dal punto di vista scientifico e che rendono questo tema uno degli argomenti ancora meno studiati e potenzialmente più interessanti.

Da una parte, la domanda: che impatto ha avuto la mossa di Taylor Swift sulla sua immagine? Quando un personaggio seguito da milioni di persone al mondo e capace di impattare sulle previsioni del PIL di un paese (come nel caso di Singapore), decide di schierarsi pubblicamente sulle elezioni dell’anno, dietro c’è un nutrito team di comunicatori, esperti di marketing e reputation managers, che ha curato nei minimi dettagli l‘uscita del post. L’immagine scelta, la firma, la punteggiatura.

Nel paese in cui la comunicazione è più sostanza che forma, perché Taylor Swift avrebbe deciso di esporsi sullo scontro Harris-Trump? Essenzialmente perché, per Swift, l’endorsement è stato un win-win: aveva poco da perdere e tanto da guadagnare. La cantante ha trasmesso l’immagine di una donna civicamente e politicamente impegnata, responsabile, consapevole del suo ruolo e della sua influenza, che si pone al servizio di una causa sociale importante, la partecipazione al voto. Con la stampa che ha, acriticamente, alimentato questa narrazione.

Ad esempio, Andrea Hailey, la chief executive of Vote.org, ha definito Taylor Swift “un esempio per tutti quelli che, tramite la loro piattaforma social, possono incoraggiare gli Americani alla partecipazione civica” e ha dichiarato che “l’impatto di Swift sul voter engagement è innegabile”. Nonostante i dati non ci permettano di misurare l’impatto effettivo di questo endorsement, l’immagine di Swift dipinta dai giornali e dagli addetti ai lavori è stata chiara e univoca: Taylor come paladina dell’impegno civico e politico. Tutto questo, rafforzando l’immagine femminista e di supporter dei diritti riproduttivi della cantante. A partire dalla firma, chiara risposta all’attacco del JD Vance alle donne senza figli. L’intero post si rifà a temi che, seppur certamente cari alla cantante, rimandano chiaramente al suo repertorio musicale e consolidano quindi il suo personal branding.

Insomma, un’operazione di marketing vestita da post civico, a costo zero. Taylor infatti è conosciuta per essere stata, almeno fino al 2018/2019 – anno di You Need To Calm Down, inno alla comunità LGBTQAI+ – una cantautrice incentrata sulla sua vita personale e sulle sue storie d’amore. Insomma, un “genere letterario” che potremmo definire rosa, e proprio per questo bipartisan. Non a caso Taylor è stata amata tanto dai repubblicani quanto dai democratici: una vera Miss Americana. Fino all’operazione di “soft rebranding” iniziata nel 2018: dalla vecchia Swift nazional-popolare, a una nuova Taylor democratica, ma “non troppo”. Non troppo perché comunque sempre apartitica e apolitica. E qua arriviamo alla seconda domanda rilevante: se certe forme di attivismo siano un bene per la democrazia digitale in cui viviamo.

Quando l’esposizione mediatica di certi personaggi sui social rimane un’esposizione apartitica e apolitica, come nel caso di Swift, i motivi per non rallegrarsi sono molti. Non solo la  posizione liberale della cantante è ormai nota dal 2018, così come la sua opposizione a Trump, il che rende il post una “non notizia”. Ma perché dicendo “I’ve done my research”, Swift lancia un pericoloso messaggio di grande appeal per le generazioni giovani, note per il loro ormai sempre più breve attention span. Invece di sottolineare che informarsi su tornate elettorali e candidati è un processo lungo, che richiede dedizione, confronto, studio, il messaggio di Swift suggerisce che per “fare politica” basti schierarsi in occasione delle elezioni. Per poi tornare ad essere “spettatori” in attesa del prossimo appuntamento elettorale.

L’impegno politico è invece ben altro: è proprio nel corso della legislatura, e non solo nella sua fase terminale o iniziale, che bisogna fare politica. Inoltre l’attività politica si deve svolgere naturalmente all’interno dei partiti, grandi assenti nel messaggio della cantante, che sono invece gli unici in grado di farsi interpreti di una visione generale dei bisogni della vita associata. Altrimenti, si finisce per restituire l’idea che i partiti siano solo macchine elettorali, o dei “partiti pigliatutto”, per dirla con Kirchheimer. Un partito cioè che perde la sua funzione di orientamento ideologico e che svolge in campo politico un ruolo analogo a quello di un marchio di un articolo di consumo, con l’elettore che vota per un partito come il consumatore passa ad un brand più in voga dopo il suggerimento di qualche influencer.

L’impatto sulla democrazia di tali peculiari forme di “fare politica” finisce quindi per essere particolarmente negativo. Il rischio di diventare Slacktivists, ossia “attivisti” da poltrona, che dopo aver letto un post da 300 parole e un click a un link si sentono civicamente e politicamente impegnati, è concreto. E ancora più reale è il rischio che le nuove generazioni, cresciute a suon di petizioni online e post social di lifestyle influencers, possano concepire questo tipo di attivismo come l’unico modo di fare politica che conoscono e che riconoscono. Insomma, i Dem potranno quindi festeggiare dopo un così importante endorsement. Ma i veri democratici, quelli cioè che hanno a cuore la democrazia, hanno invece qualche motivo in più per preoccuparsi.

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Beatrice Bonini e Giammaria Gotti

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