Predicatore, stratega, burattinaio, terrorista. Nel corso degli anni si sono sprecati gli appellativi per Fethullah Gülen, il leader islamista capo del movimento Hizmet (in turco: “Servizio”) deceduto domenica sera in un ospedale degli Stati Uniti all’età di 83 anni. A dare notizia del decesso sono stati domenica i suoi collaboratori, che hanno però omesso di precisare le cause.
Nato nel 1941 a Pasinler, distretto rurale dell’Anatolia orientale, il “grande vecchio” della politica turca viveva dal 1999 in esilio autoimposto a Saylorsburg, in Pennsylvania, e da lì coordinava la rete globale di scuole e organizzazioni sociali legate alla rete sunnita.
La dipartita del capo segna una data-spartiacque per Hizmet, già indebolito da anni di repressione draconiana da parte delle autorità di Ankara, che accusano i gülenisti di aver orchestrato il fallito golpe del 2016. Da allora il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato il movimento un gruppo terroristico – ribattezzandolo formalmente come “Organizzazione terroristica Fethullahista” (FETÖ) – e spinto infruttuosamente per l’estradizione del suo fondatore dagli Stati Uniti.
Eppure Gülen e il “sultano” un tempo erano stati molto più che buoni amici. Alle spalle di entrambi il comune retaggio islamico conservatore tipico dell’Anatolia profonda (pur essendo nato nella parte europea di Istanbul, il presidente turco ha infatti trascorso l’infanzia a Rize, dove erano nati i genitori). Ma, soprattutto, l’ambizione di portare l’Islam al centro di quelle istituzioni repubblicane che Mustafa Kemal Atatürk aveva fondato su premesse di rigorosa laicità.

Dalla sua fondazione a Smirne alla fine degli anni ’60 – ufficialmente come scuola coranica – Hizmet ha finanziato scuole e centri culturali in tutto il mondo, dall’Asia centrale all’Africa, passando per Europa e Stati Uniti. Ma fu proprio nel suo Paese natale che Gülen decise di concentrare le proprie attività di proselitismo.
Eletto premier nel 2003, Erdoğan intuì che il movimento poteva essere un prezioso alleato grazie alla sua vasta rete di scuole, istituzioni culturali e media ramificata in tutto il Paese, oltre a una base elettorale di quasi due milioni di affiliati. Al doppio scopo di aumentare la propria popolarità oltreché di minare il vecchio establishment secolare, radicato soprattutto nelle forze armate fedeli ad Atatürk.
L’acme dell’intesa venne raggiunto nel 2008, anno in cui la Corte Costituzionale di Ankara decise con ridottissima maggioranza (6-5) di non sciogliere il partito di Erdoğan (AKP) nonostante la verosimile violazione del principio di laicità – che qualche anno prima aveva portato alla messa al bando del Partito della Virtù, in cui il sultano aveva cominciato il suo percorso politico post-carcere.
Sdoganato definitivamente l’islamismo politico, la sempre più ubiqua presenza dei membri di Hizmet nelle istituzioni iniziarono a essere viste come una minaccia dall’AKP e dal suo fondatore, che cercò quindi di scaricare un (ex) alleato ormai più scomodo che utile.
La rottura definitiva coincise con il fallito colpo di Stato del luglio 2016, che nel tentativo di rovesciare Erdoğan provocò la morte di oltre 250 persone prima che le forze lealiste riuscissero a respingere i golpisti. Da subito il presidente accusò Gülen di essere l’artefice della rivolta e avviò una vera e propria epurazione che finì per coinvolgere anche gli oppositori di sinistra del suo governo: 100.000 persone furono arrestate e altre 150.000, tra cui insegnanti, giudici e militari, licenziate o sospese dal loro incarico. Migliaia di scuole, giornali e altre istituzioni legate più o meno evidentemente alla rete gülenista furono represse con la forza.
Fu quella, secondo il parere pressoché unanime degli esperti, la genesi della svolta autocratica del regime islamista, che l’anno successivo avrebbe stravolto la “Costituzione golpista” (ma di un altro golpe, quello dei militari del 1980) e istituito un regime iper-presidenziale grazie alla vittoria risicata dei “Sì” al referendum.
Anche in quell’occasione con il contributo dell’Anatolia, regione tradizionalmente musulmana che riuscì a controbilanciare i “No” delle metropoli sostenendo in massa il sultano.

Per molti dei seguaci di Gülen, il predicatore non era solo un leader spirituale o un educatore. Alcuni lo veneravano come una figura quasi messianica, vedendo in lui il “Mehdi”, il salvatore dell’Islam che secondo la tradizione musulmana emergerà alla fine dei tempi per guidare i fedeli verso il dominio globale della Umma. Una visione che ha alimentato un autentico culto della personalità attorno a Gülen, in alcuni casi rafforzando la devozione dei suoi seguaci anche dopo il suo esilio.
Ma con la scomparsa del vertice, Hizmet si trova ora di fronte a uno scossone che potrebbe amplificare le divisioni interne e accelerare un declino per certi versi inesorabile. Anche perché quello che un tempo era un florido network globale oggi si ritrova ad essere un impero ridimensionato dalla pressione diplomatica di Ankara sui vari Paesi in cui Hizmet cerca affannosamente di operare. Compresi gli Stati Uniti, il cui rifiuto di estradare Gülen è stato a lungo una spina nel fianco nelle relazioni con Ankara. E che ha finito per alimentare una teoria del complotto, dalla quale Erdoğan non si è mai dissociato, secondo cui il predicatore sarebbe stato un “burattino” nelle mani della CIA.
Ma i guai non vengono solo dall’esterno. Fonti ben informate spiegano che da anni è in corso anche una faida tra i vertici del movimento negli Stati Uniti e gli affiliati in Europa. Al centro c’è Cevdet Türkyolu, uno dei principali collaboratori e potenziali successori di Gülen, accusato da alcuni ribelli di aver assunto il controllo delle risorse finanziarie del movimento in maniera arbitraria.
E infine, c’è l’aspetto pratico, ossia come seppellire Gülen. Probabile che il luogo della sua tomba venga mantenuto segreto per evitare che diventi un simbolo per i suoi seguaci – o un bersaglio per i suoi numerosi e potenti detrattori.