Dopo l’Ucraina, Gaza e la Palestina passano dai titoli di testa a quelli in fondo pagina; il Sudan, anche qui si parla di genocidio, per un attimo richiama l’attenzione, poi tornerà nel quasi oblio. Biden, non tanto per la sua turbolenta politica internazionale, resta in alto nei notiziari con le considerazioni sul suo stato di salute – fisico? mentale? – e sulla sua possibile? probabile? rinuncia alla corsa per restare alla Casa Bianca. Il mondo ha, come sempre, forse anche più di una volta, limiti calcolati alla sua capacità di concentrazione.
Certo, 40 o 60 morti al giorno sono meno dei soliti 100 e passa dei primi sei o sette mesi dell’assalto di Israele a Hamas, soprattutto alla popolazione civile di Gaza, ma le operazioni militari e politiche di Tel Aviv vanno avanti con un preciso obiettivo. Che non è cambiato: guerra per distruggere militarmente e politicamente l’organizzazione islamista e allontanare sempre di più la possibilità di vedere nascere uno stato palestinese non al posto di Israele ma al suo fianco. E cercare di mettere fine, per sempre, alla lunga guerra tra gli ebrei d’Israele e gli arabi della Palestina.
L’altro giorno ho partecipato a una giornata dedicata alla Palestina in un parco di Roma. Il titolo scelto dagli organizzatori per conto del Comune, molto preciso: La guerra non è cominciata il 7 ottobre. Ho cercato di spiegare a un pubblico attento a cui interessava soprattutto mettere fine alla guerra come soluzione dei conflitti tra i popoli, che uno degli strumenti indispensabili è la concentrazione. Se il numero delle vittime si è ridotto nelle ultime settimane non significa che la soluzione del conflitto è vicina ma che una delle parti – in questo caso lo stato di Israele con il governo più a destra della sua breve storia – sta raggiungendo i suoi obiettivi. Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, è sempre stato un abile manovratore dell’opinione pubblica. Soprattutto di quella americana a cui si è dedicato, quasi in esclusiva, da quando ha capito che la stampa americana è più gestibile di quella europea, che il parlamento Usa, congresso e senato, per motivi non sempre uguali, sono anche loro più gestibili dei parlamentari del vecchio continente. Netanyahu, da sempre uomo di destra, figlio di un collaboratore di Jabotinski, vecchio amico di Mussolini, ora sta cavalcando la pericolosa onda delle destre europee. Lui e i suoi ministri denunciano quotidianamente l’aumento crescente dell’antisemitismo nel mondo ma evitano di sottolineare che qui da noi, è soprattutto la ripresa quasi indisturbata di una delle antiche ideologie delle destre.
Sul quotidiano Haaretz, un titolo oggi, cerca di chiarire: “Sieg Heils, canzoni di Mussolini e sproloqui sulla “razza ebraica”: lo scandalo dell’antisemitismo scuote il partito del primo ministro italiano Meloni. Un’indagine sotto copertura sull’ala giovanile del partito Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha esposto la sua palese ipocrisia. Abbracciano i leader ebrei e sostengono Israele in pubblico, mentre gli attivisti scherzano felicemente su Hitler in privato”.
Certo, a sinistra – ammesso e non concesso che ci sia ancora una sinistra – molti critici di Israele e della sua guerra, molti sostenitori dei palestinesi, continuano a confondere tra i cittadini ebrei di Israele e gli ebrei della diaspora. Se dovessi cercare di fare un paragone sarebbe come se gli americani degli anni quaranta dello scorso secolo odiassero tutti gli italiani che vivevano negli Stati Uniti (come mio padre e i suoi amici comunisti) perché l’America era in guerra con l’Italia fascista.
Ieri, comunque, sono avvenute due cose importanti in Israele. I due tradizionali partiti di sinistra, Labour e Meretz, si sono uniti per cercare di raccogliere quel che resta della sinistra israeliana in un movimento capace di bloccare l’estrema destra. E nelle stesse ore una decina di migliaia di israeliani hanno manifestato chiedendo la fine della guerra e una soluzione del conflitto tra Israele e i palestinesi.