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Perché ora Israele comincia ad avere paura

Lo Stato ebraico ha sempre più bisogno di soldati e fondi. E nel frattempo si consola l'export militare

Eric SalernobyEric Salerno

A billboard showing Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu (R) reading 'You are the head, you are the navigator, you will lead to total victory' hangs next to another billboard showing US President Joe Biden (L) in Tel Aviv, Israel, 05 March 2024. ANSA/EPA/ABIR SULTAN

Time: 3 mins read

Spostiamo l’attenzione, ma solo per un’attimo, dal campo di battaglia alla retroguardia. Dalla Striscia di Gaza, dal confine nord di Israele con il Libano, al cuore di Tel Aviv dove sopra e sottoterra si riuniscono i capi di uno degli eserciti più forti del mondo. Hakirya, letteralmente: il Campus), è un’area centrale di Tel Aviv, di cui fa parte la base militare del Campo Rabin con al centro un modernissimo grattacielo che ospita il ministero della difesa. Gli altri ministeri sono a Gerusalemme che Israele considera la capitale d’Israele; la Difesa è rimasta a pochi chilometri dal Mediterraneo considerato il luogo più distante e dunque sicuro dai territori palestinesi occupati e da quel mondo arabo che nonostante gli accordi di pace firmati con l’Egitto e la Giordania, Israele guarda con sospetto e incertezza.

La Kirya, di questi tempi, è il cuore pulsante del paese in guerra: in guerra con Hamas, in guerra con Hezbollah in Libano, in guerra con l’Iran degli ayatollah e in guerra con se stessa: forse l’antagonista più pericolosa. Fin da quell’orribile 7 ottobre dell’anno scorso quando i militanti di Hamas e della Jihad islamica hanno sorpreso Israele  – più di otto mesi fa – il premier si è fissato come obiettivo quello di eliminare Hamas come movimento politico, di uccidere i suoi dirigenti politici e militari e ovviamente anche migliaia di militanti armati che dopo i primi scontri sono passati alla guerriglia urbana. Rispetto ai cunicoli e alle gallerie sotterranee scavate dai guerriglieri vietnamiti per cacciare prima i francesi e poi gli americani, quelli creati da Hamas sotto gli occhi della moderna tecnologia israeliana, non c’è paragone.

Dopo otto mesi, Israele comincia ad avere paura. I suoi dirigenti, come Netanyahu, fanno la voce grossa ma vorrebbero che qualcuno intervenisse per fermare le armi. Biden e gli Usa sono chiaramente in difficoltà; l’Europa conta poco come sempre; la Cina è ancora lontana come recitava un vecchio detto; l’Urss non esiste più. E qualcuno comincia a vedere in un’Arabia Saudita proiettata verso l’era moderna ma non necessariamente affidabile, l’unica potenza in grado di fermare le armi e, forse, costringere Netanyahu e la maggioranza degli israeliani ad accettare quanto meno l’idea di uno stato palestinese indipendente alle porte.

Di questo si parla nella Kirya. E anche di molto altro. Israele ha bisogno di soldati e ha creato una divisione nuova per richiamare gli over 40 (quelli che per età non sono considerati riservisti), sta cerando di mettere insieme reparti di ultra-ortodossi che non andranno a combattere ma almeno servirebbero nelle retroguardie. E, ricordiamolo, le guerre costano. Gli Usa – democratici o repubblicani – non hanno problemi a finanziare Israele ma le cifre aumentano.

Per fortuna, proprio ieri, il ministero della difesa di Tel Aviv, ha comunicato che negli ultimi cinque anni, la portata delle esportazioni di materiale militare prodotto in Israele è raddoppiata.  Nel 2023, quasi la metà delle esportazioni di difesa (48 per cento) era destinata ai paesi dell’Asia e del Pacifico. Il 35 per cento era per l’Europa, il 9 per cento per il Nord America, il 4 per cento per l’America Latina, il 3 per cento per i paesi che fanno parte degli accordi di Abraham (ossia paesi arabi) e l’1 per cento per i paesi in Africa.

Pochi mesi fa, il ministero della Difesa israeliano aveva sottolineato che i prodotti made in Israel avevano il grandissimo vantaggio di essere stati testati sui campi di battaglia. Gaza sicuramente. Libano, Siria, Persino l’Iran più distante. Circa il 36% degli accordi di esportazione di armi nel 2023 erano legati ai sistemi di difesa aerea. Altre esportazioni significative erano sistemi radar e di guerra elettronica (11 per cento), attrezzature antincendio e di lancio (11 per cento), droni e avionica (9 per cento) e munizioni e armamenti (8 per cento). Secondo il Ministero della Difesa “le esportazioni sono diventate una priorità centrale …per rafforzare le relazioni strategiche di sicurezza in tutto il mondo, entrare in nuovi mercati, rimuovere le barriere burocratiche e ridurre la regolamentazione”. Anche l’Italia ha da tempo accordi con l’industria bellica israeliana.

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Eric Salerno

Eric Salerno

Giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente de 'Il Messaggero' da Gerusalemme per quasi trent'anni.

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