La “speranza è l’ultima a morire”, recita l’antica espressione latina. E se vogliamo ricorrere a quelle parole collegate a un ancora più antico mito greco per descrivere l’atmosfera e la realtà della guerra in corso dal 7 ottobre in Medio Oriente, bisogna ricordare che migliaia di bambini, donne, uomini palestinesi e anche giovani ebrei israeliani costretti a combattere, continuano a morire. La speranza, purtroppo, appare, allo stato dei negoziati in corso, quasi un gioco di pubbliche relazioni.
L’esercito israeliano continua le sue operazioni militari nella striscia di Gaza; nel nord, al confine con il Libano, lo scambio di missili e artiglieria tra Hezbollah e le forze armate israeliane aumenta di intensità; i danni a uomini e infrastrutture vengono spesso nascosti al grande pubblico ma esiste il pericolo che il conflitto possa estendersi a nord verso Beirut, a sud verso Tel Aviv. I responsabili delle diplomazie di mezzo mondo continuano il loro balletto intorno alle varie proposte di tregua; qualcuno azzarda parlare di futuro sapendo che le posizioni sul domani delle parti in guerra sono così distanti che è difficile, direi quasi impossibile, trovare un punto d’incontro.
Il piano americano tirato fuori l’altro giorno sostenendo che fosse concordato con Netanyahu si è rivelato una specie di falso, un trucco per cercare di costringere il governo israeliano e Hamas a fermare la guerra. E’ servito soltanto a continuare il gioco delle parti. Netanyahu vuole la fine di Hamas – oltre il ritorno degli ostaggi, ovviamente – e Hamas chiede garanzie che alla fine dello scontro con Israele sarà sempre il movimento – una parte importante ma soltanto una parte del popolo palestinese – a gestire il futuro.
Ieri gli inviati americani che fanno la spola tra varie capitali mediorientali, hanno parlato di passi avanti nelle trattative. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha detto che le modifiche proposte da Hamas alla proposta di cessate il fuoco sono minori e che gli Stati Uniti lavoreranno con l’Egitto e il Qatar per colmare le lacune nella proposta. “Molte delle modifiche proposte sono minori e non impreviste. Altri differiscono più sostanzialmente da ciò che è stato delineato nella risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, ha detto Sullivan. Già queste parole sembrano contraddirsi a vicenda. Sullivan ha sostenuto poi che le distanze tra le parti sono minime, superabili. Non sembra. Fonti di Hamas hanno detto al quotidiano Haaretz che “Gli emendamenti presentati hanno lo scopo di garantire che il ritiro e il cessate il fuoco siano stabiliti nella prima fase e che Israele non sarà in grado di eludere l’attuazione di tutte le fasi dell’accordo e tornare a combattere una volta che tutti gli ostaggi saranno rilasciati”.
Da quello che sappiamo, la posizione israeliana resta ancora molto distante dalle posizioni di Hamas che ha anche chiesto nella sua risposta a Washington, che Cina, Russia e Turchia siano garanti dell’accordo. Di certo, per ora, c’è soltanto la continuazione della guerra, della complessa ambiguità della Casa bianca e dell’amministrazione democratica americana che trova sempre più difficile e incoerente cavalcare il tradizionale sostegno a Israele e le azioni del governo Netanyahu accusato anche da molti alleati di sfiorare il genocidio. Anche Biden si chiede come pesare ( e giudicare) la morte di alcune centinaia di civili palestinesi (e il ferimento di altre centinaia) con la liberazione di quattro ostaggi israeliani. Non può ignorare il massacro nemmeno di fronte alle parole del leader militare di Hamas, Sinwar, per il quale “i morti civili sono sacrifici necessari”.