“Putin guida un regime dittatoriale senza alcuna legittimità morale e politica“.
Non usa certo perifrasi in legalese il prof. Gleb Bogush. 45 anni, tra i massimi esperti russi di diritto penale internazionale. Una brillante carriera da enfant prodige che in pochi anni l’ha portato dai banchi alla cattedra della prestigiosa Università statale di Mosca “Lomonosov”, e poi alla Scuola Superiore di Economia della capitale.
La sua vita, come quella di milioni di russi e ucraini, è cambiata all’alba del 24 febbraio 2022, quando i blindati russi hanno varcato il confine ucraino. Con una leadership sempre più intollerante verso il dissenso e la libertà accademica, ha scelto l’auto-esilio al di là dell’ex cortina di ferro, prima in Danimarca e poi in Germania. Attualmente lavora come ricercatore per l’Istituto di diritto internazionale della pace e della sicurezza (IIPSL) dell’Università di Colonia, oltre a insegnare diritto internazionale all’Università del Lussemburgo.
Mentre prepariamo il nostro incontro, a tenere banco sulla stampa internazionale è l’imminente mandato di arresto della Corte penale internazionale (CPI) nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu. A marzo dell’anno scorso era stata la volta del presidente russo Vladimir Putin. Iniziamo proprio da lì.

Un anno fa la CPI incriminava formalmente Putin (e la commissaria russa per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova, nda). Eppure viene accolto in pompa magna a Pechino da Xi Jinping. La scure del tribunale si abbatterà presto anche sull’ israeliano Netanyahu per i crimini di guerra a Gaza. L’impressione rimane però che, proclami a parte, certi leader siano “intoccabili”…
Io non li definirei “intoccabili”. Il regime di Putin, ad esempio, ha inserito il procuratore capo Karim Khan e i giudici della CPI nella sua lista dei ricercati e ha bandito qualsiasi assistenza alla Corte. Nel caso israeliano c’è stata una campagna preventiva di intimidazione e discredito dai toni accesissimi. Questo significa che i diretti interessati sono preoccupati perché non vogliono essere oggetto di un mandato d’arresto esecutivo da parte di 124 Stati.
Non si tratta solo di libertà di movimento – sebbene Putin abbia già dovuto disertare diversi vertici e Netanyahu, in caso di mandato, difficilmente vorrà viaggiare molto. Sono decisioni che hanno un enorme peso formale. E trovo positivo che la Corte non abbia paura di bersagliare i leader di Stati potenti. Il sistema internazionale rimane imperfetto – Orwell aveva ragione a dire che “tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri” – ma è fondamentale cercare di migliorarlo, piuttosto che limitarci ad accettare l’inaccettabile.
Lei si è distinto come uno degli accademici russi più critici nei confronti dell’invasione dell’Ucraina, decidendo di lasciare la sua cattedra in una delle più prestigiose università russe. Putin ha definito quelli come lei “quinta colonna dell’Occidente”, “feccia” e “traditori” – riesumando certa terminologia tipica dell’URSS. In che condizioni versa lo Stato di diritto in Russia oggi?
Certo, le dichiarazioni di Putin e dei suoi sodali sono minacciose e profondamente offensive. Ma personalmente le trovo facili da metabolizzare perché non riconosco a Putin alcuna autorità morale e legittimità.
Lo Stato di diritto in Russia è sparito molto prima del 2022, anche se ora è sprofondato ai minimi storici. Il Cremlino ha punito un numero spropositato di prigionieri politici semplicemente per aver espresso le proprie posizioni, quasi sempre per aver detto la verità. Viene bersagliato anche chi accusa Putin di condurre una guerra di aggressione, o chi cita le risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU. La libertà di riunione è stata cancellata e qualsiasi attività di opposizione criminalizzata.
In Russia vige un vero e proprio regime dittatoriale, e sarà possibile parlare di ordine giuridico solo dopo che ne verrà ripristinato uno degno di questo nome. Attualmente, ritengo che qualsiasi cooperazione con il regime russo in campo legale vada sospesa fino a quando non subentrerà un esecutivo legittimo e responsabile.
Il suo nome compare tra i firmatari della “Dichiarazione di Bruxelles”, un documento in cui numerosi giuristi e attivisti russi chiedono la creazione di un tribunale speciale per indagare sul crimine di aggressione contro l’Ucraina. In che modo la corte sarebbe diversa dalla CPI e quali vantaggi offrirebbe?
Purtroppo, la CPI non ha giurisdizione sul crimine di aggressione contro l’Ucraina senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Lo stabilisce il compromesso raggiunto dagli Stati a Kampala nel 2010 – pagando a mio avviso un prezzo altissimo per l’inclusione del crimine di aggressione nello statuto del tribunale. In un certo senso, si è rafforzata la convinzione dell’impunità dei membri permanenti, compresa la Russia.
Crediamo fortemente all’idea di un tribunale internazionale speciale perché quello dell’aggressione, che a Norimberga fu descritto come “il male complessivo dell’insieme”, è un crimine centrale in Ucraina. Processare i leader che iniziano e conducono una guerra di aggressione sarebbe cruciale e indispensabile per la società russa, così come per gli ucraini e per l’intera comunità internazionale. Aprirebbe la strada alla riconciliazione ponendo fine a infruttuose discussioni su presunte “responsabilità collettive” del popolo russo. Perché, non va dimenticato, molti cittadini russi sono vittime di questo crimine assieme agli ucraini.
Vedo sviluppi promettenti a livello di Consiglio d’Europa, che è una delle strade per istituire il tribunale. È molto importante che questa istituzione sia il più possibile internazionale per poter adempiere alla sua missione.

Di quali riforme ha bisogno la CPI per essere più efficace e potente nei confronti dei leader, soprattutto quelli di Stati influenti come Russia e Israele?
Nonostante le riforme, a differenza delle corti nazionali la CPI da sola non può arrestare Putin o Netanyahu. Affinché il meccanismo sia efficace, sono necessari cambiamenti nel sistema delle relazioni interstatali. Gli Stati non si devono limitare a dichiarazioni altisonanti, ma agire in conformità ai principi che esprimono.
Se alcuni Stati membri, a seconda delle loro simpatie politiche, mettono in discussione le decisioni della Corte e il loro obbligo di attuarle, difficilmente aiuteranno l’istituzione ad essere efficace. Per capirci, Putin è stato accolto non solo da Xi ma anche dal premier ungherese Orbán, che ha pure condannato il mandato non ancora emesso contro Netanyahu, esercitando pressioni sui giudici.
Non sottovaluterei comunque l’importanza dei mandati di arresto. In generale, la sola possibilità che la CPI persegua capi di Stato non è più accolta con sgomento e proteste. Si tratta di un passo nella giusta direzione, anche se la strada è impervia.
Quale prevede possa essere il futuro della CPI come baluardo contro i crimini internazionali? Gli appelli a favore del multilateralismo sembrano sottintendere un abbandono dell’attuale sistema internazionale americanocentrico. C’è il rischio di tornare a uno status quo ottocentesco in cui una manciata di grandi potenze possono agire al di fuori dei confini della legge nelle loro aree d’influenza (come la Russia in Ucraina, la Cina a Taiwan e gli Stati Uniti in America Latina)?
Francamente dubito che si rischi di tornare al XIX secolo: è una realtà fin troppo lontana e invisa alla maggior parte delle persone sul pianeta. Per molti versi, stiamo piuttosto pagando il prezzo dello squilibrio di questo sistema, compresa l’egemonia statunitense, che ha provocato mancanza di unità nell’affrontare le aggressioni.
Quanto al futuro della CPI, per essere un vero baluardo di legalità andrebbe resa più proattiva. Le attività della Corte si fondano sul concetto di complementarietà, vale a dire di sussidiarietà rispetto agli Stati. Sulla carta è un’idea bellissima, ma di scarsa efficacia pratica. Vanno rafforzate innanzitutto le capacità della Corte, ma naturalmente molto dipende dall’equilibrio di potere nel mondo nel suo complesso e nell’ONU.
Oggi stiamo ancora godendo i frutti della breve “età dell’oro” della giustizia penale internazionale degli anni ’90, che portò a un’inedita epoca di unanimità al Consiglio di Sicurezza. Questi frutti non comprendono solo i tribunali speciali istituti in quel periodo ma anche la genesi della stessa Corte penale internazionale. La storia ci dimostra che tutto è possibile.