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Netanyahu non vuole la Palestina indipendente (e continua a colonizzarla)

Il premier condanna i riconoscimenti di Spagna, Irlanda e Norvegia. Intanto il suo governo facilita gli insediamenti in Cisgiordania

Eric SalernobyEric Salerno
‘Netanyahu teme mandato di arresto da Cpi, colloqui frenetici’

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu speaks at a press conference following a meeting with German Chancellor Olaf Scholz (not seen) in Jerusalem, 17 March 2024 ANSA/EPA/LEO CORREA / POOL

Time: 3 mins read

Nel 1986, Benjamin Netanyahu, allora ambasciatore israeliano all’Onu, fece pubblicare anche in Italia il suo  Terrorismo. Come l’Occidente può sconfiggerlo. Un insieme di saggi su molte vicende storiche che fino ad allora erano considerate azioni accettabili – non necessariamente belle o eleganti o meno brutali di tante altre – di movimenti di liberazione vari. Fece impressione un esempio che sembrava costruito proprio per le sue idee e quello che succedeva allora a Gaza e stava cominciando a coinvolgere Gerusalemme Est e tutta la Cisgiordania occupata. L’Intifada, la rivolta palestinese delle pietre, come veniva descritta, stava mettendo in difficoltà le forze armate israeliane.

Per molti giornalisti e non solo, gli uomini in divisa che sparavano contro i bambini o i loro coetanei che lanciavano pietre contro loro e i loro carri armati di ultima generazione, assomigliavano ai parà francesi che, diceva il premier israeliano di oggi, lottavano anni prima “contro i terroristi del Fronte di liberazione algerino”.

Gillo Pontecorvo, secondo Netanyahu, era solo un sostenitore del terrorismo. La battaglia di Algeri, la sua splendida, accattivante storia della lotta dei ribelli algerini e delle misure sempre più estreme adottate dal governo francese per sopprimere quella che sarebbe presto diventata una rivolta nazionale e che portò alla dichiarazione di indipendenza dell’Algeria nel 1962, fu per molti anni bandito dalle sale cinematografiche israeliane.

È comprensibile, dunque, come oggi Netanyahu, i suoi alleati di estrema destra e anche una parte considerevole della popolazione ebraica di Israele possono essere stravolti dalla decisione di Spagna, Irlanda e Norvegia di riconoscere lo Stato palestinese. È un regalo ad Hamas, un regalo ai terroristi, gridano, e reagiscono approvando nuove misure repressive dei palestinesi nei territori occupati, annunciando nuovi insediamenti e nuovi stanziamenti di fondi per consolidare molti di quelli esistenti.

Netanyahu, l’altro giorno, per accontentare il presidente americano Biden, giurava che assolutamente non era tra i suoi progetti quello che ripristinare le colonie ebraiche che anni fa esistevano a Gaza, dove in questi mesi i bulldozer dell’esercito hanno tracciato strade e zone militari “permanenti” in mezzo alle macerie delle città e campi profughi palestinesi. Oggi, nuove voci tra i fanatici della sua coalizione, parlano di cacciare – o far emigrare volontariamente – i palestinesi di Gaza. Tanto, fanno capire, ormai anche quando sarà finita la guerra “per distruggere Hamas”, di case e infrastrutture, sarà rimasto ben poco.

Poche ore dopo l’annuncio del riconoscimento della Palestina da parte dei tre governi europei, “Peace Now – Pace ora – l’organizzazione israeliana che da anni lotta perché si possa trovare una soluzione al conflitto basata, o sul riconoscimento di uno stato palestinese accanto a Israele o con un accordo per la formazione di uno stato bi-nazionale sul territorio della Palestina mandataria – dal Mediterraneo al fiume giordano – ha denunciato le misure israeliane.

“Il ministro della Difesa Yoav Gallant – si legge in un lungo documento –  ha annunciato la cancellazione dell’ordine che vieta agli israeliani di entrare nelle aree della Cisgiordania settentrionale da cui Israele si era ritirato dopo la legge sul disimpegno del 2005”, voluto dall’allora premier Ariel Sharon. “Questo è il primo passo verso la potenziale creazione di insediamenti futuri in queste aree”. E ancora: “Invece di salvaguardare la sicurezza e gli interessi politici di Israele, Gallant si rivolge alle fazioni estreme dei coloni…La nostra leadership politica deve cambiare direzione, lavorare per porre fine alla guerra e perseguire un accordo basato su due stati. Solo in questo modo porteremo la sicurezza, restituiremo gli ostaggi e impediremo l’isolamento internazionale. Questa è la vera vittoria”.

Poche ore dopo, la Knesset, il parlamento israeliano, sempre su richiesta delle destre, ha approvato (in prima lettura) nuovi stanziamenti per gli insediamenti meno noti nella parte meridionale della Cisgiordania. Nelle stesse ore, il ministro degli esteri irlandese è stato chiaro riguardo la misura decisa da suo governo e che sarà comunicato formalmente il 28 di questo mese. “Quando riconosciamo uno stato, non riconosciamo il governo del giorno, riconosciamo lo stato in termini di popolazione permanente, in termini di confini definiti, e in questo caso sono i confini del 1967”. E ha specificato: Questo è “un territorio definito che coinvolge Gaza, la Cisgiordania e … una capitale che sia di uno stato israeliano che di uno stato palestinese a Gerusalemme”.

Il premier spagnolo Pedro Sanchez ha voluto sottolineare che “Questo riconoscimento non è contro nessuno, non è contro il popolo di Israele, che rispettiamo e apprezziamo, né contro il popolo ebraico, né a favore di Hamas”. “È a favore della coesistenza pacifica tra Israele e Palestina”.

La battaglia politica è appena cominciata ma quella militare non è finita. Nella striscia di Gaza si continua a morire; in Cisgiordania, le operazioni militari israeliane si estendono sia a nord che a sud. E c’è sempre il rischio che il governo israeliano decida di attaccare le forze armate di Hezbollah in Libano. I media vicini a Netanyahu e all’estrema destra mostrano sempre più di frequente immagini e mappe per del nord di Israele da dove le popolazioni civili furono allontanate quasi otto mesi fa e sostituite da truppe pronte ad entrare in azione.

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Eric Salerno

Eric Salerno

Giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente de 'Il Messaggero' da Gerusalemme per quasi trent'anni.

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