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Israele si spacca sulla “pace”. Ma chi è il nemico?

Gallant rigetta l'idea di mantenere il controllo militare di Gaza. Netanyahu non vede differenze tra Hamas e Fatah

Eric SalernobyEric Salerno

Israel's Prime Minister Benjamin Netanyahu (R) and Defense Minister Yoav Gallant (L) address a press conference in The Kirya military base in Tel Aviv, Israel, 28 October 2023. ANSA/EPA/ABIR SULTAN / POOL

Time: 3 mins read

Tanti anni fa, in una delle prime interviste che mi concesse Yitzhak Rabin, allora responsabile della difesa israeliana, mi sorprese con un netto sì, quando gli chiese se avrebbe mai parlato, negoziato ed eventualmente fatto pace con Yasser Arafat, capo dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione palestinese. “Certo! La pace si fa con il nemico”, spiegò secco. Una ventina d’anni dopo lo vidi sul prato della Casa Bianca a Washington stringere la mano al suo nemico. Sul suo volto era evidente l’incertezza e i molti dubbi che lo tormentavano. Quello che appariva chiaro, allora, e che i leader di Israele erano pronti, o quasi, a creare uno stato palestinese accanto allo “stato ebraico”. Erano pronti, a ridimensionare gli insediamenti, o colonie, in Cisgiordania; erano pronti a studiare un luogo a Gerusalemme, seppure minuscolo e ovviamente da negoziare, dove lo stato palestinese poteva stabilire la sua capitale.

Rabin e Peres erano nati e cresciuti nel mondo del sionismo laico e socialista. Si confrontavano con altri esponenti della vecchia guardia, Begin e Shamir, laici anche loro ma fautori di uno stato ebraico che, come era scritto, allora, nella piattaforma del Likud, andava dal Mediterraneo al fiume Giordano, ossia sulla totalità della Palestina mandataria. Quasi la totalità della Terra santa, che comprendeva pezzi del Libano, della Siria e dell’Egitto. Netanyahu, l’attuale premier israeliano da sempre fa parte della destra del Likud e forse anche più di Begin e Shamir è un laico che in pubblico mantiene le regole della religione ebraica per non infastidire o scontrarsi con molti della sua base elettorale. È oggi ancora più attento a quelle regole o consuetudini visto che i suoi alleati di governo sono estremisti religiosi per i quali, prima o poi, i palestinesi andrebbero cacciati non soltanto dalla striscia di Gaza ma anche da Gerusalemme Est e dalla Cisgiordania.

Israele oggi è diviso molto più di quando Rabin si disse disposto a negoziare e fare la pace con il nemico. Ma qualche spiraglio per un futuro migliore, per una soluzione che garantisca la fine dello scontro tra i due popoli che vorrebbero la stessa terra, per una pace regionale. L’altro giorno il ministro della difesa Gallant, finora apparentemente fedele alla politica di Netanyahu, si è detto nettamente contrario alla idea del premier di far assumere ai militari il controllo civile della Striscia. Ha proposto una leadership palestinese per Gaza, con il coinvolgimento dell’Autorità palestinese. Netanyahu ha subito respinto l’idea, dal momento che è tenuto prigioniero dai suoi partner estremisti della coalizione di destra che non soltanto per evitare la caduta del governo e il proseguimento dei processi civili intentati contro di lui ma anche perché non ha mai voluto uno stato palestinese accanto a Israele e ha sempre lavorato per favorire la colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.

La dichiarazione di Gallant contraddiceva, infatti, le osservazioni fatte dal primo ministro in un messaggio registrato solo poche ore prima. Netanyahu ha promesso che Israele avrebbe combattuto Hamas fino alla fine e ha detto che non aveva senso discutere del “giorno dopo” fino a quando l’organizzazione terroristica non fosse stata sconfitta e rimossa da ogni parvenza di potere a Gaza. Lo scontro ai vertici del governo è, per la prima volta da quando è cominciata l’assalto alla striscia, grave ma non decisiva. “La fine della campagna militare deve essere un atto politico. Il giorno dopo Hamas sarà raggiunto solo attraverso il dominio di elementi palestinesi che formano un’alternativa a Hamas. Soprattutto, questo è un interesse israeliano. Sfortunatamente, nessun piano di questo tipo è stato portato in discussione e, peggio ancora, non è stata presentata alcuna alternativa al suo posto”.

Subito dopo che Gallant ha fatto la sua dichiarazione, Netanyahu ha rilasciato un nuovo videomessaggio dicendo che non avrebbe mai accettato di sostituire “Hamastan con Fatahstan”. La guerra va avanti – qualcuno ipotizza fino a dopo le elezioni presidenziali americane di novembre – non c’è un progetto israeliano per il futuro della striscia ampiamente distrutta: i morti palestinesi sono quasi 40 mila; case e infrastrutture devastate. E tra un giorno o due la Corte internazionale di giustizia deciderà – rispondendo alla richiesta del Sudafrica e dell’Egitto se definire l’operazione israeliana “genocidio” nei confronti del popolo di Gaza.

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Eric Salerno

Eric Salerno

Giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente de 'Il Messaggero' da Gerusalemme per quasi trent'anni.

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