Vendere i beni confiscati a oligarchi e autorità russe negli Stati Uniti e nell’UE per finanziare la ricostruzione post-bellica dell’Ucraina. L’idea, discussa da mesi dalle cancellerie occidentali, potrebbe presto diventare realtà grazie all’assist del Congresso statunitense.
Ad accelerare i tempi è stata l’approvazione di un nuovo pacchetto di aiuti militari a Kyiv da parte della Camera dei rappresentanti USA, rimasta per mesi ostaggio dell’ostruzionismo dei repubblicani più vicini all’ex presidente Donald Trump (che è fondamentalmente propenso ad abbandonare Volodymyr Zelensky al suo destino per non alienarsi l’elettorato conservatore). Misura poi passata anche al Senato, e contestualmente firmata dal presidente Joe Biden.
La nuova tranche di aiuti fa parte di uno stanziamento complessivo da 95 miliardi di dollari che comprende assistenza militare per Ucraina (che da sola ne assorbirà 61 miliardi) Israele e Taiwan – e che include appunto una misura per il potenziale trasferimento all’Ucraina dei beni russi sequestrati in Occidente.
Ma cosa, quanti, e dove sono i fondi sottratti a Mosca?
Si tratta di una vasta gamma di strumenti finanziari e partecipazioni ‘congelati’ dopo l’invasione russa dell’Ucraina, lo scorso 24 febbraio 2022. Conti bancari, proprietà immobiliari, azioni, obbligazioni, beni di lusso e altri investimenti di proprietà di oligarchi e società russe in diverso modo collegati al Cremlino.
Il valore complessivo è difficile da stimare, ma sembra superare agevolmente i 300 miliardi di dollari – equamente investiti in titoli esteri, depositi bancari e conti di corrispondenza di riserva.
Gli ultimi documenti ufficiali che si riferiscono all’inizio del 2022 indicano che la sola banca centrale russa deteneva circa 207 miliardi di dollari in attività denominate in euro, $67 miliardi in valuta statunitense e $37 miliardi in sterline britanniche. Nel documento si fa inoltre riferimento a $36 miliardi in yen giapponesi, $19 miliardi in dollari canadesi, $6 miliardi in dollari australiani e $1,8 miliardi in dollari di Singapore, oltre a $1 miliardo in franchi svizzeri.

La maggior parte dei beni congelati si trova in Europa, soprattutto in Belgio. E proprio a Bruxelles le autorità UE stanno valutando se trattenere gli interessi generati dagli strumenti confiscati. A febbraio i leader eurounionali hanno già deciso di conservare le entrate dei suddetti fondi in un conto separato, utilizzando i ricavi per aiutare Kyiv.
L’obiettivo delle istituzioni europee è quello di utilizzare una tassa speciale per prelevare solo i profitti eccezionali di Euroclear (il depositario centrale belga) dai depositi russi congelati, evitando così le imprevedibili conseguenze legali di un vero e proprio sequestro del denaro sottostante – un unicum nella storia recente della finanza internazionale, almeno a questi livelli.
Un approccio analogo a quello europeo è stato suggerito un mese fa dallo speaker repubblicano della Camera USA, Mike Johnson. Il deputato GOP ha proposto di utilizzare i fondi russi come garanzia per gli aiuti militari all’Ucraina, piuttosto che usare la solita formula degli aiuti esteri pagati dai contribuenti americani.
Nel caso in cui dal profitto sugli interessi si passasse alla svendita dei beni russi, Mosca comunque non starà a guardare. Il Cremlino è pronto infatti a fare altrettanto con i beni USA ed europei specularmente congelati dopo l’invasione, che a detta della autorità russe avrebbero un valore vicino proprio ai 300 miliardi di dollari.
A finire sotto la scure dello zar sarebbe in primis il denaro degli investitori internazionali detenuto in conti speciali di tipo “C”, creati all’indomani dell’invasione dell’Ucraina e del congelamento dei beni occidentali nel Paese eurasiatico. Mosca ha già posto alcuni beni occidentali in gestione straordinaria e imposto il trasferimento dei beni stranieri ad imprenditori nazionali con sconti di almeno il 50%.
Martedì il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha definito il possibile via libera degli USA alla vendita di fondi russi “la demolizione di tutte le fondamenta del sistema economico” e “un attacco alla proprietà statale, ai beni statali e alla proprietà privata” foriero di lunghi contenziosi internazionali. “Se tali misure saranno attuate, molti Paesi e investitori ci penseranno 10 volte prima di investire nell’economia statunitense o di mantenervi le proprie partecipazioni”.