Sì a nuove sanzioni, no alla strategia del “pan per focaccia” che rischia di trasformare il Medio Oriente in una maxi-polveriera.
Nel giorno dell’incontro tra i ministri degli Esteri del G-7 a Capri emerge chiaramente la volontà dei Paesi occidentali (più il Giappone) di evitare che Israele risponda militarmente allo sciame di droni, missili balistici e cruise iraniani che lo scorso fine settimana ha illuminato i cieli dello Stato ebraico – a sua volta rappresaglia dei pasdaran per il raid delle IDF contro il consolato iraniano a Damasco di inizio mese.
Che la situazione sia pericolosamente vicina alla linea rossa che demarca il confine tra instabilità e guerra è una percezione assai comune. L’intuizione è confermata anche dalle parole al vetriolo del presidente iraniano Ebrahim Raisi, che mercoledì ha promesso/minacciato che anche “la minima invasione” da parte degli israeliani porterebbe a una risposta “imponente e dura”.
Il leader di Teheran è intervenuto in mattinata alla parata annuale dei Guardiani della Rivoluzione, che quest’anno è stata eccezionalmente spostata in una caserma a nord di Teheran invece della solita autostrada nella periferia meridionale della capitale – per di più senza diretta da parte della TV di Stato.
Le autorità della Repubblica Islamica non hanno fornito spiegazioni tecniche sul trasloco, ma è chiaro che è d’uopo limitare grandi assembramenti – specialmente se militari.
“Consigliamo ai nemici di non commettere alcun errore strategico, perché siamo pronti a colpirli, soprattutto con i caccia Sukhoi-24, i bombardieri tattici supersonici russi”, ha chiosato il comandante delle forze aeree dell’Esercito Hamid Vahedi.

Il capo di Stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha promesso che il lancio di oltre 300 missili e droni contro lo Stato ebraico “riceverà una risposta”. Dove e quando, però, non è ancora dato sapere.
Cruciale in tal senso potrebbe essere la riunione del gabinetto di guerra israeliano convocata per oggi: da una parte la necessità di rispondere alla provocazione degli ayatollah – che, pur avendo ripetutamente combattuto Israele per procura, mai prima d’ora l’avevano attaccato frontalmente. Dall’altra il pressing dell’alleato statunitense, consapevole che il mondo – e Washington – hanno bisogno di tutto fuorché di una nuova guerra in Medio Oriente oltre alla carneficina di Gaza.
Un conflitto vorrebbe dire per l’amministrazione Biden non solo ancora maggiore imbarazzo diplomatico nel rimanere accanto a Tel Aviv dopo i noti dissidi sulla gestione umanitaria nella Striscia. Ma anche una verosimile impennata dei prezzi del greggio. Ed è assodato che nulla fa più paura a un presidente statunitense uscente di un rincaro dei prezzi al distributore in anno di elezioni.
Per questo motivo il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha annunciato martedì l’arrivo di nuove sanzioni sui programmi missilistici e di droni iraniani – in modo da punire sì Teheran, ma solo economicamente. Sulla stessa lunghezza d’onda la segretaria al Tesoro Janet Yellen, che ha promesso che Washington ostacolerà le “attività maligne e destabilizzanti” dell’Iran attraverso la carta delle sanzioni e la cooperazione con i propri alleati.
Nelle conversazioni private con Netanyahu, Biden ha chiarito sin da subito che Washington non parteciperà ad alcuna azione offensiva contro l’Iran, esortando Bibi a “valutare attentamente e strategicamente” i rischi di un’escalation.
L’impegno statunitense si limiterà insomma a difendere lo Stato ebraico da eventuali incursioni nemiche, come avvenuto già lo scorso fine settimana, quando il Comando Centrale USA nella regione ha coordinato le difese anti-missile di Giordania, Regno Unito (e Arabia Saudita), che assieme al sistema Iron Dome hanno intercettato il 99% dei vettori iraniani.
Secondo due funzionari statunitensi consultati dall’Associated Press, Israele non ha ancora rivelato alla Casa Bianca come intende reagire, precisando tuttavia che qualsiasi azione intrapresa sarà finalizzata ad evitare che la già precaria situazione regionale peggiori. Ciò spinge a pensare che la rappresaglia potrebbe avere un raggio d’azione più limitato, come colpire gruppi legati a Teheran – in primis gli Hezbollah libanesi, ma anche milizie in Siria, Yemen e Iraq – oppure un massiccio attacco hacker che paralizzi il temutissimo programma nucleare di Teheran.