Il tragico attentato che venerdì scorso è costato la vita ad almeno 137 persone al Crocus City Hall di Krasnogorsk, periferia ovest di Mosca, è stata “opera di islamisti radicali”. A confermarlo lunedì sera è stato il presidente russo Vladimir Putin in un video-incontro con diversi ministri, il sindaco e la governatrice di Mosca – dove ha peraltro gettato pesanti ombre sul ruolo di presunti “complici” ucraini.
Le autorità russe avevano precedentemente evitato di suffragare esplicitamente la pista jihadista – nonostante l’ISIS-K avesse pubblicamente rivendicato la paternità dell’attacco e rilanciato video POV dell’assalto. La tesi del terrorismo islamico è stata validata anche dall’intelligence USA, con l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre che ha ricordato domenica come lo Stato Islamico e i suoi affiliati siano “un nemico terroristico comune che deve essere sconfitto ovunque”.
“Sappiamo che il crimine è stato commesso da alcuni islamisti radicali, la cui ideologia è combattuta da secoli dallo stesso mondo islamico”, ha esordito Putin. “Ma vediamo anche che gli Stati Uniti (…) stanno cercando di convincerci che secondo le loro informazioni di intelligence non c’è alcuna traccia del [coinvolgimento] di Kiev”, ha continuato.
“Questa atrocità potrebbe essere solo un anello di una catena di tentativi da parte di chi è in guerra con il nostro Paese dal 2014“, ha detto Putin, definendo l’Ucraina un “regime neonazista”. “Naturalmente è necessario rispondere alla domanda: perché dopo aver commesso il crimine i terroristi hanno poi cercato di andare in Ucraina? Chi li aspettava?“.
Secondo i servizi segreti di Mosca, i quattro presunti attentatori sarebbero stati infatti catturati nella regione di Bryansk, a pochi chilometri dai confini con Ucraina e Bielorussia. Lì, avrebbero cercato di fuggire in auto e di attraversare il confine militarizzato sfruttando “una finestra aperta per loro in Ucraina”, secondo quanto dichiarato sabato da Putin in un precedente intervento.
I dubbi del Cremlino erano già stati esternati nero su bianco dalla portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zakharova. “Una domanda alla Casa Bianca: siete sicuri che sia colpa dell’ISIS? Potete ripensarci?”, ha scritto in un articolo per il quotidiano Komsomolskaya Pravda.
Washington, a dire di Zakharova, starebbe agitando lo “spauracchio” islamista per coprire i propri “reparti” a Kyiv – ricordando ai lettori il precedente dell’Afghanistan, dove negli anni ’80 gli statunitensi finanziarono i mujahiddin talebani impegnati nella resistenza armata alle truppe sovietiche.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha tuttavia respinto con rabbia le accuse di Mosca come un tentativo maldestro del Cremlino di scaricare le proprie incapacità d’intelligence su Kyiv. “Stanno bruciando le nostre città e cercano di dare la colpa all’Ucraina”, ha dichiarato domenica il leader ucraino. “Torturano e violentano la nostra gente – e danno la colpa a loro. Hanno portato qui centinaia di migliaia di loro terroristi per combatterci sul suolo ucraino, e non si preoccupano di ciò che accade nel loro Paese”.

Domenica sera, intanto, centinaia di operatori mediatici e giornalisti hanno atteso l’arrivo dei presunti attentatori di origine tagika all’ingresso del tribunale distrettuale di Basmanny, nella capitale russa. Le loro facce erano già state rese di dominio pubblico grazie agli spezzoni dei brutali interrogatori compiuti su di loro dall’FSB. Un’inquisizione che sembra aver letteralmente lasciato il segno: tutti e quattro sono infatti apparsi con graffi e lividi evidenti su tutto il volto; uno di loro aveva una benda sull’orecchio, recisogli dalle forze dell’ordine.
Al termine di una sessione-fiume durata fino all’alba di lunedì, per Dalerdzhon Mirzoyev, Saidakrami Rachabalizoda, Muhammadsobir Fayzov, e Shamsiddin Fariduni è stata formulata l’imputazione di terrorismo. Secondo il tribunale, due degli imputati si sono dichiarati colpevoli. Per tutti, in ogni caso, è stata disposta la misura cautelare del carcere – dove è pressoché certo che passeranno il resto dei loro giorni.
Ma c’è anche chi si spinge oltre, chiedendo al parlamento di revocare la moratoria sulla pena di morte (l’ultima esecuzione capitale risale al luglio 1996): dal 2022 Mosca non è più soggetta alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che la vieta espressamente – e può perciò cambiare il dettato costituzionale in qualsiasi momento.
Nelle ore immediatamente successive alla strage le autorità russe hanno detenuto altre 7 persone in vario modo collegate ai fatti di venerdì sera. Su di loro non è stata ancora rilasciata alcuna dichiarazione da parte della polizia o delle autorità.
All’inizio di marzo l’ambasciata statunitense a Mosca, seguita da molte altre diplomazie occidentali (tra cui la Farnesina), aveva comunicato ai propri connazionali di stare lontani dalle aree affollate della capitale russa a causa di possibili attentati “imminenti” da parte di estremisti contro grandi raduni. Gli statunitensi avrebbero inoltre passato le informazioni in proprio possesso all’FSB, che negli stessi giorni ha sventato un tentativo di attacco a una sinagoga di Mosca da parte di una cellula legata ai miliziani.
I 137 morti al Crocus City Hall rendono l’attacco di venerdì il più letale in Russia dall’assedio della scuola di Beslan nel 2004, dove a morire furono in 334 (in gran parte ragazzini). Le drammatiche proporzioni dei bollettini provenienti da Mosca potrebbero peraltro aggravarsi ancora: nel teatro alla periferia nord-occidentale della capitale erano stati venduti 6.200 biglietti per il concerto della rockband Piknik.
Dopo aver aperto il fuoco e fatto detonare esplosivi nella sala, i terroristi hanno di fatto dato fuoco al grande complesso – e non è ancora stato stabilito quante persone potrebbero essere rimaste intrappolate dalle macerie. Il Ministero russo per le Situazioni di Emergenza ha finora identificato appena una trentina di vittime.