“Non cambiare cavallo mentre attraversi il fiume“. Per comprendere meglio le elezioni presidenziali russe in corso – e i suoi risultati pressoché scontati – conviene fare riferimento alla saggezza popolare di un vecchio adagio slavo.
Dalla tre-giorni di voto, che da venerdì a domenica chiama alle urne circa 114 milioni di elettori dal Donbass occupato a Vladivostok, è infatti ampiamente previsto l’ennesimo tripudio di Vladimir Putin. Visto da fuori, l’uomo forte del Cremlino sembra molto più che un semplice cavallo: è un Varenne in salsa eurasiatica capace di vincere – anzi stravincere – qualsiasi gara che gli si presenti davanti.
Non c’è stato secondo che il 71enne leader pietroburghese abbia smesso di guidare la Russia fin dall’8 agosto del 1999 – quando un Boris El’cin politicamente (e fisicamente) claudicante lo promosse da delfino a re. Prima nominandolo capo del Governo, e quindi, dimettendosi pochi minuti prima della mezzanotte del 2000, determinandone la definitiva ascesa a presidente.
Fatta eccezione per il periodo 2008-2012, quando ovviò alla proibizione costituzionale di ricandidarsi per un terzo mandato presidenziale consecutivo facendo eleggere il sodale Dmitrij Medvedev e tenendo per se la premiership, Putin non ha mai abbandonato il Gran Palazzo del Cremlino. E c’è da giurare che non lo farà almeno per i prossimi 6 anni – forse 12. Ha vinto infatti persino sulla Costituzione, riformandola nel 2020 in modo da azzerare il computo dei suoi mandati precedenti, oltre ad aumentarne la durata da 5 a 6 anni.
In un accorato messaggio pre-elettorale trasmesso giovedì dalla TV di Stato, Putin ha esortato i connazionali a sostenerlo durante un “periodo difficile” per il Paese.
“Abbiamo già dimostrato di poter rimanere uniti, difendendo la libertà, la sovranità e la sicurezza della Russia… Oggi è di fondamentale importanza non allontanarsi da questo percorso”, le sue parole. Affermazioni che difficilmente cadranno nel vuoto – non solo perché l’ex spia del KGB gode ancora di livelli di consenso interno stratosferici (l’86% dei russi è con lui, secondo il Levada Center), ma anche per l’assenza di rivali credibili. Chi avrebbe potuto esserlo, peraltro, spesso è finito in carcere, in esilio, o addirittura ci ha rimesso la pelle (come Aleksej Navalny o, per altri versi, Evgenij Prigozhin).
Attendere il risultato delle urne sarà quindi come aspettare la mezzanotte il giorno di San Silvestro: trepidazione sì, ma per un’ovvietà. Non a caso i sondaggi prevedono un plebiscito con più dell’80 per cento. Il compito di dividersi le briciole spetterà a Nikolay Kharitonov (Partito Comunista), Leonid Slutsky (Partito Liberal-Democratico, ossia gli ultra-nazionalisti) e Vladislav Davankov (per il movimento liberale “Gente Nuova”).
Non ci sarà invece Boris Nadezhdin, unico vero candidato pacifista che pur avendo ottenuto le firme necessarie è stato scartato dalla Commissione elettorale di Mosca. Non solo: a poche ore dal voto, alcuni suoi collaboratori sono stati oggetto di perquisizioni e blitz della polizia. Parlare di pace quando in guerra (rectius, “operazione speciale”) si fanno progressi non è dopotutto molto conveniente.

I russi, insomma, non cambieranno il cavallo-Putin prima di aver attraversato il fiume-Ucraina. A inizio settimana, lo stesso Putin ha sostenuto che Kyiv e l’Occidente dovranno “prima o poi” accettare un accordo alle condizioni di Mosca, sulla scia dei recenti successi militari delle truppe russe nel Donbass e nel Sud.
A rinfrancare il Cremlino è poi la circostanza che la paventata implosione economica post-bellica in Russia non c’è stata. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, quest’anno l’economia di Mosca dovrebbe persino crescere del 2,6% – più del doppio dello 0,9% previsto per i Paesi europei. Nella sua campagna elettorale, Putin è stato particolarmente munifico e ha promesso elargizioni per tutte le fasce sociali: dall’estensione dei mutui garantiti dallo Stato per le giovani famiglie, agli investimenti in edilizia, sanità, istruzione, scienza, cultura e sport.
Dal punto di vista di Putin, a rovinare il trionfo elettorale potrebbe esserci solo il boicottaggio chiesto a gran voce dall’opposizione “vera”, diversa da quella partitica che è solo nominalmente speculare al potere. L’ultima a chiedere di recarsi alle urne e “fare tutto tranne che votare Putin” è stata Julija Navalnaya, vedova dell’attivista anti-corruzione morto in una colonia penale artica in circostanze misteriose.
Era stato proprio suo marito Aleksej a proporre un “mezzogiorno contro Putin“, che alle 12:00 (ora locale, le 10 italiane, le 5 newyorkesi) di domenica 17 marzo vedrà migliaia di manifestanti recarsi al proprio seggio elettorale, mettersi in fila, e infine scrivere “Navalny”, fare uno scarabocchio, imbrattare l’urna di vernice, o complicare in altro modo la vita al regime.
Le autorità di Mosca hanno avvisato che chiunque prenderà parte a proteste sarà perseguito penalmente e potrebbe scontare fino a cinque anni di carcere. Qualcuno, intanto, non ce l’ha fatta ad aspettare fino a domenica e ha voluto esprimere il proprio dissenso già nelle prime ore di voto: nella capitale, un’anziana è stata arrestata per aver dato fuoco a una cabina elettorale, secondo l’agenzia di stampa indipendente Sota. A San Pietroburgo e nel distretto autonomo di Khanty-Mansi, invece, due donne hanno cercato di lanciare molotov contro i seggi elettorali e sono state immediatamente arrestate dalla polizia.
Il cavallo-Putin galoppa insomma implacabile verso il 2030 (o il 2036). Ma con una differenza dal Varenne vero: se infatti lo stallone ha concepito equini altrettanto formidabili, l’ubiquità di Putin ha impedito per ora alla classe dirigente russa di prescegliere chi ne dovrà prendere il testimone. E, nel prenderlo, a stare attento a non farsi travolgere dalla corrente.