Incontrai la “coscienza di Israele” una mattina assolata a Gerusalemme. Era ricurvo, stanco, quasi schiacciato dalla montagna di libri che lo circondava e che mi costringeva a seguire le sue parole seduto su di uno sgabello, piccolo come era piccolo il suo modesto ufficio da professore emerito nel vecchio campus dell’Università ebraica.
Era battagliero, arrabbiato con il mondo che lo circondava. Deluso del suo popolo. Si, mi confermò, aveva detto che il simbolo di Israele ormai non era più la stella di Davide ma il Mercava, il carro armato ultima generazione che era da poco uscito dalle fabbriche israeliane. Nella striscia di Gaza, i potenti Mercava già terrorizzavano e sparavano contro i giovani palestinesi che tiravano pietre contro altri giovani in divisa e mezzi dell’esercito di occupazione.
Non ricordo la data precisa ma doveva essere dicembre 1987 o i primi dell’anno successivo.
Yeshayahu Leibowitz nacque nella città di Riga nel 1903 e morì a Gerusalemme nel 1994. Fu Isaiah Berlin, filosofo, politologo e diplomatico, anche lui ebreo, lettone ma naturalizzato britannico, a definirlo “la coscienza di Israele”. Dottore in Filosofia all’Università di Berlino e in Medicina all’Università di Basilea, fu professore di Biochimica all’Università Ebraica. Moti Mizrahi, professore associato di filosofia, in Florida, ha recentemente – ma ancora prima dei massacri del 7 ottobre in Israele e dell’assalto alla popolazione di Gaza – raccontato Leibowitz e il suo pensiero. Da sempre, spiega era controcorrente e lo sarebbe ancora di più oggi, credo, considerando il fatto che nacque in una famiglia ebraica ortodossa, profondamente sionista e per tutta la vita mantenne tradizioni e comportamenti del mondo ortodosso.
“Contrariamente alle recenti interpretazioni – racconta Mizrahi – del sionismo intrise di sfumature religiose e messianiche, Leibowitz sfidò l’idea che il popolo ebraico avesse un diritto divino sulla terra d’Israele. Mise in guardia contro i pericoli derivanti dall’idolatria della sovranità e del potere militare. Le rivendicazioni fondiarie sancite da Dio erano, per Leibowitz, equivalenti a una forma di tirannia, o come lui la chiamava, “giudeo-fascismo”.
“Per nulla turbato da qualsiasi reazione negativa, Leibowitz condannò l’invocazione del messianismo e la santificazione del potere militare. Questi, ha detto, equivalgono a “una moderna incarnazione della falsa profezia” e “una prostituzione della religione ebraica”. L’occupazione ha portato all’errata convinzione che la forza militare possa essere utile per risolvere i problemi politici, compreso il conflitto israelo-palestinese”.
Laici e religiosi israeliani hanno sempre preferito evitare o aggirare i discorsi controcorrente di Leibowitz specialmente quando sosteneva – e ricordo ancora oggi le sue parole di quel troppo breve incontro – che non ci può essere una rivendicazione religiosa sulla terra di Israele, perché qualsiasi rivendicazione del genere si basa su una confusione “tra il popolo ebraico come portatore del giudaismo e lo Stato sovrano istituito da questo popolo come suo strumento”.
Nel suo libro Judaism, Human Values, and the Jewish State (1992), Leibowitz scrisse: “Nella situazione attuale c’è solo una via d’uscita da questa impasse…anche se nessuna delle due parti la riconosce come giusta né la trova realmente accettabile: spartizione del paese tra i due popoli”. Significa, e ne era consapevole, che i coloni ebraici dovevano rientrare entro i confini riconosciuti di Israele.
Nel 1982, Leibowitz era un forte oppositore dell’invasione israeliana del Libano.
Un anno prima della sua morte – a Gerusalemme nel 1994, un anno dopo la firma dei falliti accordi di Oslo tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese – Leibowitz tenne un discorso al Consiglio di pace israelo-palestinese e ribadì il suo appello ai soldati israeliani affinché si rifiutassero di prestare il servizio militare nei territori occupati. Con un linguaggio provocatorio paragonò le unità delle forze speciali dell’esercito israeliano alle SS naziste. Era stato appena nominato per il “Premio Israele”, il riconoscimento più prestigioso del Paese per un civile e la Corte Suprema di Giustizia presentò ricorso contro l’iniziativa e Isaac Rabin minacciò di boicottare la cerimonia.
La coscienza d’Israele, coerente fino alla fine, rifiutò il premio.