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December 19, 2023
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Le parole per dire la guerra

Di solito, tra Israele e Palestina, vengono pesate per evitare polemiche. Ma stavolta la realtà si fa largo tra la propaganda

Angelo FigorillibyAngelo Figorilli

Israeli soldiers step out of an armoured vehicle at an undisclosed location near the Gaza border, Israel, 14 December 2023 ANSA/EPA/ATEF SAFADI

Time: 3 mins read

Sono giorni che sui grandi media italiani rischia di barcollare la regola di dosare le parole quando si descrive “l’intervento” israeliano a Gaza. Parlano certo di “operazioni complesse” di “obiettivi da raggiungere”, di “danni da limitare”, i più tradizionalisti non rinunciano a usare il vecchio verbo “stanare” i terroristi, insomma prudenza. Pochi aggettivi però sul tema bombe, forse qualche passo avanti abbiamo fatto e non poteva essere altrimenti. E guardate non è poco, perché da sempre la parola più usata nelle redazioni di grandi giornali e tg non era “bombardamenti” ma la più cinematografia “raid”.

Gli israeliani non gettano bombe ma fanno raid, in genere si aggiungeva mirati, raid mirati. Mirati contro cosa? Un’altra espressione straordinaria da usare era “basi” o “infrastrutture” militari, risolveva ogni dilemma in redazione, tutto può essere indicato come base o infrastruttura, anche cortili, appartamenti, cantine. Inutile stare a spiegare. Stavolta invece, forse per la vergogna, almeno la parola raid è stata sacrificata ai più semplici bombardamenti, magari intensi (dire indiscriminati è ancora tabù nonostante il timido tentativo americano di introdurre il concetto); insomma è una prima crepa nella guerra delle parole. Perché chi lavora o è stato in Israele a fare il giornalista sa che questa guerra viene prima di tutto il resto.

Ci hanno costruito e ricostruito opinioni pubbliche nel corso degli anni, le guerre le hanno vinte anche così con l’uso metodico del vocabolario. Non era censura, badate bene, ma una sorta di cappa linguistica che aleggiava sopra chi cominciava a scrivere il pezzo. Se doveva iniziare meglio farlo da una “nuova pioggia di razzi” lanciata contro Israele, che rispondeva in genere con “raid” chirurgici. Se poi i razzi da Gaza meno male non avevano fatto morti e feriti sempre “pioggia” restava – mentre se le bombe di Israele abbattevano un palazzo con dentro famiglie erano sempre raid di risposta per colpire le “postazioni”. Ecco, dimenticavo un altro termine salva-pezzo: postazioni che nascondevano terroristi, meglio se dirigenti. Per scrivere “civili” ci voleva la carta bollata. Non bastava nemmeno quella dell’ONU – anzi se lo dicevano le Nazioni unite… vabbè due righe di replica come da par condicio.

Diciamo la verità, tutto questo forse è finito. L’evidenza della realtà ha travolto questo manuale a cominciare dal 7 ottobre. Anche i più scatenati non riuscivano a tener dietro a quella storia che aveva ammutolito tutti. Nessuno poteva pensare a tanto ma così è stato. E poi è venuta la risposta di Israele, altro che raid sulle postazioni, ogni giorno che passa diventa chiaro il disegno spinto dalla rabbia feroce dello smacco subito. Nessuna chirurgia, ma fare tabula rasa, senza remore senza distinguere. Hanno voglia a parlare di fase uno e fase due (quella che un imbarazzato Biden vorrebbe assomigliasse più alla tradizione di un Israele capace di colpire chiunque dovunque con crudele precisione), qui quello che si vede è solo il furore di chi deve vendicarsi. “Riporteremo a casa gli ostaggi”, ripete ogni giorno Netanyahu – ma per ora muoiono sotto i loro colpi ciechi. E che chirurgia ci sarebbe nei cecchini che ammazzano madre e figlia che escono dall’unica parrocchia cattolica di Gaza?

E poi ci sono i numeri dieci: ventimila morti, e tanti troppi bambini, una cosa che alla fine si riduce a statistica con buona dose di anestesia. Ma l’umiliazione dei palestinesi, lo sfregio travalica, difficile da nascondere perché soldati si riprendono mentre distruggono i giocattoli in una cartoleria per bambini oppure dedicano in un selfie alle figlie la prossima casa palestinese che faranno esplodere. La battaglia di immagini e parole infuria, tra propaganda e parole dal sen fuggite e Israele stavolta non la sta vincendo. Solo una cosa potrebbe ribaltare l’immagine di una guerra brutale e finora condotta senza limiti e morale: se riuscisse a liberare almeno qualche ostaggio con una spettacolare azione militare. Alla vecchia maniera, quella che ha reso famosi e terribili i suoi corpi speciali. Per ora invece ci restano impresse le storie di quei ragazzi che a torso nudo, gridando aiuto in ebraico e sventolando bandiera bianca sono stati falciati senza pietà da chi li doveva salvare.

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Angelo Figorilli

Angelo Figorilli

Ha lavorato per anni in Rai come inviato. Ha viaggiato un po’ in giro, in Afghanistan e Iraq per le guerre, in Francia per le rivolte nelle banlieues, in America per Obama e per Trump. È stato anche molto in redazione davanti al computer, fino a dirigere gli esteri del Tg2. Ha scritto i libri “il cane Patàn e altre storie” “Banlieues i giorni di Parigi” e “Lettere che non sapevano dove andare”. Nell’ultimo anno ha realizzato con Francesco Paolucci e Maurizio Maggiani il documentario “L’uomo più buono del mondo - la leggenda di Carlo Tresca”. Vive tra Roma quando deve, Sulmona, dove è nato, e Capalbio, perché lì trova finalmente il tempo di leggere e qualche volta di scrivere, con calma

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