“Questa è la mia terra, la nostra terra. E non andremo mai via da qui. Questo è mio figlio – disse indicando il bambino, forse un anno, che portava tra le braccia – e lui crescerà qui. Sulla terra nostra. La terra dei nostri antenati. La terra del nostro popolo”.
Parlava un americano perfetto. L’accento dei newyorkesi, che ero abituato a sentire fin dall’infanzia. Era il marzo 1979. Un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata, sui monti a nord di Gerusalemme non distante dalla città palestinese di Nablus nel territorio che lei chiamava Samaria riferendosi al suo nome biblico. Era stata conquistata da Israele alla fine della “guerra dei sei giorni”.
La signora americana era arrabbiata. Il suo presidente, Jimmy Carter, facendo la spola tra Gerusalemme e il Cairo era appena riuscito a convincere il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Begin a firmare la pace, la prima tra un paese arabo e lo Stato voluto dagli ebrei. Non era stato facile. I nemici si guardavano con sospetto e soprattutto restava da sistemare un piccolo problema, quella dei confini di Israele e di come risolvere la questione dell’altro popolo, quello palestinese, che considerava suo lo stesso territorio, dal Mediterraneo al fiume Giordano e alla frontiera con il regno hascemita di Giordania.
Furono giorni eccitanti per Israele e per gli israeliani, meno per gli abitanti arabi del territorio che erano abituati a chiamare Palestina. Ero stato a Nablus per ascoltare le proteste dei palestinesi e fu, in qualche modo illuminante, e preoccupante, l’incontro con la signora newyorkese, cresciuta nel Brooklyn, vestita con gli abiti lunghi tipici degli ebrei ortodossi, un foulard in testa che
ricopriva la sua parrucca d’obbligo. “Questa terra ci è stata data da Dio. E nessuno ce lo porterà via. Il mio popolo fu cacciato con la forza, con l’odio. Siamo stati lontani per duemila anni. Ora siamo tornati. Per restare. Abbiamo già dato abbastanza agli arabi”, aggiunse con convinzione e rabbia.
“Cosa avete dato agli arabi?” Volevo capire. La risposta fu immediata, decisa. “Damasco e il resto. Una volta era tutta nostra questa terra, fino all’Eufrate”.
Non so se quella signora è ancora nella sua piccola casa nell’insediamento ebraico su quella collina ma da allora – quaranta e passa anni fa – gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati sono aumentati. Molti sono diventati vere e proprie città-dormitorio per una popolazione israeliana in aumento. Altri sono nati e cresciuti grazie agli ebrei di Brooklyn e di altre località americane che scelsero, e scelgono ancora, di lasciare gli Usa e, spinti dalla fede e/o da motivi economici, sono immigrati – hanno fatto aliya, il termine ebraico – e si sono insediati nella Cisgiordania occupata.
Gli ebrei americani sono da sempre la maggioranza dei nuovi immigranti che scelgono di vivere nelle colonie. E il trend è continuato negli ultimi anni, anche quando il Covid aveva visto un rallentamento dei movimenti. Chi sono? Negli insediamenti della Cisgiordania vivono circa 450.000 ebrei e Sara Yael Hirschhorn, professoressa di studi israeliani, ha stimato, nel suo libro del 2016 City on a Hilltop: Jewish-American Settlers in the Occupied Territories Since 1967, che circa 60.000 immigrati americani vivevano in Cisgiordania, di cui rappresentavano circa il 15% della popolazione.
La maggior parte negli ultimi decenni sono ortodossi e tendono ad allinearsi con il movimento dei coloni. Fattori ideologici ed economici compresi la maggiore disponibilità di case unifamiliari a prezzi accessibili hanno giocato un ruolo chiave. Grazie anche ai massicci finanziamenti governativi israeliani gestiti da una organizzazione privata, fondata da ebrei ortodossi americani.
Nell’insieme le attività degli ebrei americani, soprattutto quelli che vivono nelle comunità-ghetto come quelle che esistono a Brooklyn, sono le stesse di altre comunità. L’Fbi non molti anni fa ha sgominato una organizzazione trans- nazionale dedicata al commercio di Lsd e altri stupefacenti; trasferimenti illegali di denaro e diamanti, da un paese all’altro, da una comunità all’altro, avvengono ancora; l’attenzione di polizia e servizi segreti è stata spesso indirizzata agli ebrei estremisti, come alcuni esponenti politici molto attivi in Israele.
Era intrinseca la violenza dei coloni, molti di loro americani, all’attività di insediamento israeliano sin dal suo inizio negli anni Settanta. Nel 1994 un colono nato a Brooklyn sparò e uccise 29 fedeli
musulmani palestinesi e ne ferì altri 125 mentre pregavano nella Moschea Ibrahimi a Hebron. L’azione di quell’israeliano con doppia cittadinanza giustificò agli occhi di Hamas un lungo regno di terrore in Israele, ossia la seconda Intifada che segnò la fine del processo di pace avviato con gli accordi di Oslo e a famosa firma Arafat-Rabin-Peres. Un ritratto di quel terrorista israelo-americano, Baruch Goldstein, è appeso nel salotto di Itamar Ben Gvir, uno dei ministri più di destra del governo Netanyahu.
Pochi anni prima il leader della Jewish Defence League, l’ebreo americano, sempre nativo di Brooklyn, Meir Kahane ammise che la sua organizzazione aveva bombardato uffici della rappresentanza dell’Unione sovietica a New York e Washington: Voleva che agli ebrei russi venisse permesso di emigrare per andare in Israele. Grazie a un ufficiale sotto copertura fu scoperta una catena di depositi di armi gestita dalla organizzazione terroristica ebraica a Brooklyn, con “abbastanza fucili e fucili per armare una piccola milizia”.
Uno dei quartieri più noti di questo piccolo mondo ebraico a a Brooklyn è Borough Park, che ospita una delle più grandi comunità ebraiche ortodosse al di fuori di Israele e una delle maggiori concentrazioni di ebrei negli Stati Uniti.