E ora? Un vuoto “attivo”: il presidente americano Joe Biden è atterrato all’aeroporto di Tel Aviv; il segretario generale dell’Onu lancia i suoi appelli umanitari dall’altra parte del mondo; gli europei sono tutti giustamente spaventati per la possibile crescita dell’antisemitismo come conseguenza dell’orrore di queste ore in Medio Oriente; i leader arabi sembrano bambini arrabbiati che battono i piedi per terra incapaci da sempre di affrontare con serietà la questione palestinese.
Che siano duecento o cinquecento i morti nell’ospedale di Gaza è un elemento secondario. E forse non è nemmeno importante, ormai, se la loro morte va attribuito a Israele, come sostengono i palestinesi, o alla Jihad Islamica come dicono i militari di Tel Aviv. Sono le vittime di una guerra (quella immediata, s’intende) cominciata da Hamas; che Israele per bocca del suo premier Netanyahu giura che porterà alle ultime conseguenze, (ossia distruggerà Hamas), ben sapendo che l’eliminazione fisica dei leader del movimento integralista è col tempo possibile ma le cause del conflitto resteranno.
Tra qualche ora sapremo se il capo della Casa Bianca nella sua breve visita, a di poco inusuale, a Israele servirà a qualcosa. I capi arabi e il leader palestinese Abu Mazen hanno già cancellato l’incontro previsto con Biden al Cairo e, al massimo, accetteranno di parlare con lui al telefono mentre, dopo la tappa israeliana, sarà in volo di ritorno per Washington. Cosa dirà loro? Cosa soprattutto dirà a Netanyahu, il suo oggi disprezzato “amico”, capo di un paese che sta affrontando la più grave crisi della sua breve storia. Chiederà, finalmente, una “pausa” umanitaria? Dirà al leader israeliano che non si risolve il conflitto palestinese distruggendo la popolazione di Gaza nella ricerca, militarmente difficile, di eliminare Hamas.
Tutto il mondo (compreso Israele) è rimasto sorpreso di fronte all’assalto dei militanti delle brigate integraliste; e buona parte del mondo è ancora sorpreso per il fatto che l’onnipotente Mossad non è riuscito a eliminare fisicamente i capi di Hamas molti dei quali vivono fuori dalla Palestina, in Qatar, in altri paesi mediorientali, forse qualcuno ospite provvisorio dell’Iran.
In un suo editoriale, il giornale israeliano Haaretz ha accolto la visione di Biden che con un grande abbraccio, salutava Netanyahu sotto la scaletta di Air Force One a Tel Aviv. La visita del presidente americano “è una dimostrazione di sfiducia nella qualità del processo decisionale di Israele e l’ansia per l’assenza di una strategia chiara o di una strategia di uscita. Gli americani sostengono, comprendono pienamente e giustificano una feroce rappresaglia israeliana…quasi un imperativo morale. Ma gli americani hanno poca fiducia nel primo ministro Benjamin Netanyahu. La sua eclatante spavalderia, arroganza, manipolazioni e atteggiamento sprezzante nei confronti degli Stati Uniti sono una questione di record. La sua credibilità è stata particolarmente offuscata dopo un anno in cui ha istigato un colpo di stato costituzionale in Israele: il motivo per cui Biden non lo ha ancora invitato alla Casa Bianca. E ancora: “Gli americani possono essere in qualche modo rassicurati dalla presenza nel “gabinetto di guerra” dell’ex ministro della Difesa Benny Gantz e dell’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eisenkot, ma hanno fin troppo familiarità con le buffonate di Netanyahu”.
Forse, aggiungo dopo aver ascoltato molti israeliani sia uomini politici che sostenitori del partito di Netanyahu, se l’uomo che stato alla guida di Israele per quasi due decadi ed è sempre stato contrario all’idea di uno stato palestinese accanto a Israele, si dimettesse sarebbe più facile tentare di impostare un futuro. Mai, comunque, come in questo momento la “questione palestinese” è diventata prioritaria per il futuro del Medio Oriente. Mai come oggi, è apparsa tanta distante una soluzione.
Morti e feriti, da una parte come dall’altra, ostaggi ancora nella mani di Hamas e della Jihad islamica, e anche il mondo palestinese deve trovare leader giovani quantomeno di spirito capaci di farsi seguire dal loro popolo. Pause di riflessione, periodi di calma, tregue sono ormai quasi inutili: La guerra più lunga della nostra storia moderna deve essere risolta. Per i palestinesi, per gli arabi tutti, per il bene dello “Stato ebraico” come si definisce Israele e anche per gli ebrei della diaspora, negli SA, in Europa, in giro per il mondo, che mai come oggi ricordano che sono “ebrei non israeliani” e che credono con speranza nella via, non sempre facile, imboccata dalle democrazie occidentali.