Aumenta il numero delle vittime, da una parte e dall’altra; la distruzione è massiccia a Gaza, ma anche in parti di Israele. Hamas continua a lanciare missili e combattere nelle zone meridionali di Israele con i suoi uomini infiltrati e le forze armate israeliane continuano a colpire con missili e altro la “striscia”.
L’attacco lanciato dal movimento fondamentalista che controlla Gaza ha sorpreso Israele e scioccato la sua popolazione. Sono molti, anche tra gli ebrei sostenitori della causa palestinese e “pacifisti” storici, che oggi dicono apertamente che vorrebbero “farla finita una volta per sempre” con il movimento islamico fondamentalista che controlla Gaza e opera contro la storica Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e il governo dell’Autorità palestinese diretto dal suo presidente Mahmoud Abbas. “Appiattite Gaza”, se necessario, è l’umore crescente in Israele. “Anche se dovesse significare la morte dei nostri soldati e civili, uomini e donne, presi ostaggio”. E ancora: “Avevamo giurato ‘mai più’, pensando all’Olocausto, ma ora abbiamo paura”.
È un sentimento diffuso ma non realistico. Il fallimento delle strutture difensive israeliane – da quelle dell’Intelligence alle forze armate – è stato un duro colpo e ci vorrà tempo perché riprendono il controllo della situazione ma tutti sanno che dal punto di vista militare Hamas – ed eventualmente altre forze arabe, come Hezbollah in Libano – non possono essere considerati una vera minaccia all’esistenza del stato che gode di una delle strutture militari più forti della regione se non del mondo.

E allora, ci si chiede, cosa spera di ottenere Hamas dalla sua operazione? Uno scambio di prigionieri? Centocinquanta israeliani, forse di più, militari e civili catturati e portati a Gaza, in cambio dei quasi cinquemila palestinesi nelle carceri israeliane? Forse, ma non basta, considerando il numero delle vittime palestinesi, uomini in armi e civili, sacrificati finora e il cui numero è destinato ad aumentare. Prendere il posto dell’Autorità guidata da Abbas come unico rappresentante del popolo sotto occupazione? È un’ipotesi da non scartare.
L’obiettivo più immediato di Hamas potrebbe essere di bloccare le iniziative americane per estendere i cosiddetti “accordi di Abramo” e impedire all’Arabia Saudita di firmare un trattato di pace con Israele. Con la firma dei sauditi si chiuderebbe, teoricamente, il lunghissimo conflitto arabo-israeliano senza, però, risolvere la questione palestinese. I coloni ebrei, ormai ben oltre il mezzo milione resterebbe negli insediamenti che hanno creato nei territori occupati della Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E le organizzazioni transnazionali come Amnesty International e Human Rights Now, potrebbero solo continuare a denunciare che “Israele impone un sistema di oppressione e dominazione contro i palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, al fine di avvantaggiare gli ebrei israeliani. Ciò equivale ad apartheid proibito dal diritto internazionale.
“Leggi, politiche e pratiche intese a mantenere un crudele sistema di controllo sui palestinesi, li hanno lasciati frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti e in un costante stato di paura e insicurezza”.
Può Hamas, con la sua operazione, costringere o indurre Israele a negoziare una realtà diversa per i palestinesi? Probabilmente no. Soprattutto oggi che il governo israeliano, la più a destra della storia di Israele, con una presenza se non dominante quantomeno determinante di ministri estremisti fedeli alle cause dei coloni e fautori di uno stato ebraico, possibilmente senza arabi con le frontiere che si estendono dal Mediterraneo al fiume Giordano.
“Non chiediamo molto”, mi disse molti anni fa, una colona ebraica arrivata dagli Stati Uniti e portavoce di un insediamento nei pressi di Nablus in Cisgiordania, “abbiamo già rinunciato a molto della nostra Terrasanta”. “Ossia?”, chiesi. “Baghdad, l’Iraq. E anche la Siria”. Molti ebrei della diaspora, anche negli Stati Uniti, non sarebbero d’accordo con lei mentre gode, ancora oggi, del sostegno di numerosi fondamentalisti protestanti e cattolici americani, spesso gli stessi a cui spesso chiede sostegno il premier israeliano Netanyahu.