Le autorità dell’Azerbaigian e i separatisti filo-armeni hanno raggiunto nelle scorse ore un cessate il fuoco per porre fine a una due-giorni di intensi combattimenti nella regione contesa del Nagorno-Karabakh.
Un portavoce del Governo di Baku ha dichiarato mercoledì mattina di aver interrotto l’operazione militare, poco prima che le milizie secessioniste annunciassero a loro volta di aver (temporaneamente) deposto le armi. Giovedì i rappresentanti delle due fazioni hanno comunicato l’intenzione di avviare negoziati nella città azera di Yevlakh.
Martedì l’esercito di Baku aveva lanciato pesanti colpi di artiglieria contro le posizioni rivali, nell’ambito di una “operazione antiterrorismo” contro le milizie filo-armene che occupano la regione montuosa azera (che gli armeni chiamano ‘Artsakh’ e rivendicano come propria) fin dagli anni ’90. Secondo Geghan Stepanyan, difensore civico per i diritti umani del Nagorno-Karabakh, gli scontri di inizio settimana avrebbero provocato ben 32 morti – tra cui sette civili – e più di 200 feriti – compresi 11 bambini.
Il Ministero della Difesa russo ha annunciato che le sue truppe di peacekeeping hanno evacuato più di 2.000 civili, senza specificare tuttavia dove siano stati trasferiti.

Quella appena conclusasi è solo l’ultima di una serie di violentissime schermaglie tra Baku e separatisti filo-Yerevan, che si contendono militarmente questa limitata porzione di territorio caucasico sin dalla caduta dell’Unione Sovietica. A rendere il Nagorno-Karabakh/Artsakh uno dei territori più aspramente contesi al mondo è la netta maggioranza etnica armena in un territorio riconosciuto dalla comunità internazionale come di sovranità azera. Da un lato c’è infatti l’auto-proclamata Repubblica dell’Artsakh, che guarda all’Armenia (ma che non è riconosciuta da alcuno Stato); dall’altro, l’Azerbaigian che reclama il rispetto dell’integrità territoriale (con l’aiuto della Turchia).
La prima guerra del Karabakh (1988-1994) scoppiò proprio in concomitanza con il crollo dell’URSS, provocando più di 30.000 morti e oltre un milione di sfollati – prevalentemente azeri. A prevalere furono infatti le milizie filo-armene, che ottennero il controllo del Nagorno-Karabakh e di ampie porzioni di altri sette distretti dello Stato nemico, proclamandosi quindi repubblica indipendente.
Lo status quo è però nuovamente mutato profondamente nel 2020, quando dopo anni di sporadiche schermaglie l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva militare passata alla storia come seconda guerra del Karabakh. Nel giro di 44 giorni, le truppe di Baku hanno ottenuto un clamoroso trionfo che ha permesso loro di riprendere il controllo dei distretti sottratti negli anni ’90 e di quasi un terzo del Nagorno-Karabakh stesso. Al costo, però, di ben 6.500 vittime.

Per evitare che altre schermaglie al confine si tramutassero nuovamente in un conflitto di più vasta portata, il cessate il fuoco siglato nel 2020 – e mediato da Mosca – ha previsto l’invio di 1.960 peacekeepers russi per proteggere il “corridoio di Lachin”, un valico di frontiera che collega l’Armenia con il Nagorno-Karabakh e che funge da corridoio umanitario per i circa 120.000 armeni etnici che abitano nell’Artsakh.
Nell’agosto 2022, come previsto dagli accordi, il controllo del corridoio è passato formalmente nelle mani degli azeri, che tuttavia lo scorso aprile hanno istituito un posto di blocco per impedire il trasporto “illegale” di forniture militari e risorse naturali – ma che di fatto ha sospeso anche l’afflusso di aiuti umanitari agli armeni.
Prima dell’escalation militare di questa settimana, le autorità di Yerevan avevano protestato a gran voce contro l’alleato russo, sostenendo che la guerra in Ucraina l’avesse “distratta” dalle sue responsabilità di Stato-garante della pace nel Caucaso meridionale. E così gli armeni hanno deciso di flirtare geopoliticamente con l’acerrimo rivale di Mosca, ossia gli Stati Uniti, organizzando un’esercitazione militare congiunta di 10 giorni (la “Eagle Partner 2023”) che ha coinvolto 85 soldati statunitensi e 175 armeni.
Le esercitazioni, iniziate l’11 settembre nei pressi della capitale Yerevan, sono state ufficialmente concepite per preparare le truppe armene a partecipare alle missioni internazionali di mantenimento della pace. Tuttavia, dal Cremlino è trapelata una certa irritazione, considerando che all’inizio di quest’anno l’Armenia si era rifiutata di ospitare analoghe esercitazioni nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza di Paesi post-sovietici guidata proprio dalla Russia.
All’inizio di settembre, in un’intervista su La Repubblica, il premier armeno Nikol Pashinyan aveva accusato pubblicamente Putin di non essere riuscito a proteggere l’Armenia dalla “continua aggressione” da parte dell’Azerbaigian. Gli statunitensi hanno fiutato aria di crisi – aprendo potenzialmente un nuovo fronte della guerra in Ucraina.