Si chiama cyber-schiavitù ed è un fenomeno crescente nelle mani della criminalità organizzata. Dietro lo spamming di messaggi fraudolenti che invade le mailbox del pianeta o i nostri profili social, insomma, c’è spesso una manodopera coatta. Sarebbero decine di migliaia le persone tenute prigioniere a lavorare in fabbriche di truffe informatiche, per lo più nel sud est asiatico – ma non solo. In luglio, l’Interpol ha lanciato l’allarme: è un fenomeno in crescita, non più un problema regionale ma una crisi globale del traffico di essere umani.
Le reti dello scam, la truffa online, operano virtualmente ed è quindi possibile spostarle da una località all’altra o anche da un Paese all’altro, magari prediligendo luoghi remoti o travagliati da un conflitto. Ma agli onori delle cronache c’è soprattutto il caso Cambogia, dopo le segnalazioni di decine di paesi alla ricerca dei loro cittadini; nel paese l’industria delle frodi sembra aver trovato un nido tranquillo, grazie all’ampia protezione di personaggi molto vicini al potere e addirittura al neo primo ministro Hun Manet.
Gli schiavi delle fabbriche di frodi vengono attirati – come sempre accade nel traffico di esseri umani – con la promessa di un lavoro ben pagato e magari di un alloggio gratuito; giunti in Cambogia invece si trovano a lavorare sotto stretta sorveglianza per truffare malcapitati online, vittime a loro volta, a profitto di un’industria multimiliardaria: per esempio offrendo investimenti inesistenti, prestiti a tasso zero, acquisti via app da negozi fasulli. Il New York Times riporta il caso di Nathan, filippino che credeva di andare a lavorare per un servizio clienti in Thailandia e si è ritrovato in Cambogia a truffare sconosciuti. I primi sospetti gli sono venuti quando ha visto il filo spinato che circondava il compound dove avrebbe dovuto lavorare. Poi gli è stato detto che doveva cercare di circuire donne americane e inglesi su un sistema di dating online. Quando si è rifiutato è stato picchiato.
Secondo il Dipartimento di Stato Usa, nel paese ci sono circa diecimila persone nelle fabbriche di scam, molti cinesi, vietnamiti, malesi e thailandesi. Se cercano di andarsene vengono ripresi e picchiati o viene loro richiesto un riscatto per il “debito” contratto – come alle ragazze della tratta della prostituzione.

Secondo il quotidiano newyorchese la Cambogia, sotto pressione internazionale, nell’agosto 2022 ha annunciato che avrebbe preso provvedimenti e in questi 12 mesi ha liberato oltre duemila cittadini di altri paesi e arrestato 95 persone, ma le interviste condotte dal Times con gruppi per i diritti umani, agenti delle forze dell’ordine e schiavi liberati fanno capire che l’industria clandestina continua a fiorire.
Fonti della polizia cambogiana, protette dall’anonimato, spiegano quanto sia difficile intervenire e citano il caso di un edificio bianco della provincia di Koh Kong da cui era fuggito un giovane vietnamita. Le forze dell’ordine sanno cosa succede in quel palazzo ma entrarvi non è possibile: servirebbe un permesso speciale del ministero dell’Interno perché la proprietà sarebbe del senatore Ly Yong Phat, uno degli uomini più ricchi della Cambogia e consigliere personale del premier Hun Manet – il quale è assurto alla carica la settimana scorsa prendendo il posto di suo padre, lo storico primo ministro Hun Sen, in una sorta di investitura dinastica.
Non ci sono prove che Ly Yong Phat – che in passato è stato anche consigliere di Hun Sen – sia collegato alle cyber truffe, ma attivisti come quelli del gruppo Cyber Scam Monitor affermano che magnati come lui hanno un ruolo cruciale: offrono copertura e impediscono le indagini.
Per decenni, Hun Sen è rimasto al potere grazie all’appoggio di un gruppo di ricchi sponsor che in cambio hanno avuto possibilità di arricchirsi, costruendo scuole e strade secondo i programmi del suo Partito del Popolo Cambogiano.
La chiusura di una singola fabbrica o la liberazione di un gruppetto di schiavi non risolve il problema, dice Jacob Sims, consigliere del gruppo per i diritti umani International Justice Mission. “Se si chiude una fabbrica ma i rischi sono bassi, se ne aprirà subito un’altra” osserva: i profitti del racket dei cyber schiavi in Cambogia sarebbero superiori ai 12 miliardi di dollari l’anno.
Nathan, il giovane filippino, alla fine è stato liberato dai suoi sorveglianti; non ha mai capito perché. Ora è al sicuro in patria – ma dice di temere ancora rappresaglie.