Due anni fa, i talebani entravano a Kabul, mentre le truppe dei paesi stranieri che per vent’anni avevano cercato di controllare l’Afghanistan acceleravano la corsa alla loro precipitosa, caotica ritirata. Il portavoce talebano Zabihullah Mujahid prometteva, rassicurante: “permetteremo alle donne di lavorare e studiare; saranno molto attive ma nella cornice dell’Islam”.
Parole che servivano anche da paravento, poiché le forze occidentali avevano sostanzialmente concordato il ritiro, sebbene pensassero di avere più tempo. Parole vuote. In questi due anni alle donne è stata imposta una vasta gamma di misure costrittive che impediscono loro fra l’altro di lavorare e di andare a scuola oltre i 12 anni; lo scorso dicembre è stata loro proibita l’università; secondo l’Onu l’80% delle ragazze non riceve un’istruzione.
Il regime – che ufficialmente ancora non è riconosciuto da nessun Paese – ha cancellato vent’anni di paziente lavoro delle afgane per ritrovare autonomia, studiare, lavorare; si sono viste ricacciate in casa in posizione più che subalterna – una conseguenza ovvia del dominio talebano, che l’Occidente ha sostanzialmente accettato senza battere ciglio, al di là delle rimostranze di facciata. L’Onu la definisce “apartheid di genere”, e possiamo solo essere ammirati dal coraggio delle donne che ogni tanto a Kabul scendono in strada a manifestare prima di essere disperse con la forza.

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Dal punto di vista della sicurezza, l’Afghanistan sotto i talebani – senza la continua guerriglia contro i soldati stranieri – ha recuperato una condizione molto più accettabile che negli ultimi decenni, nel senso che non si rischia più di saltare per aria per strada; ma è aumentato il numero delle vittime di violenze sessuali, psicologiche, economiche e amministrative – peraltro senza possibilità di avere cifre affidabili.
L’Onu in occasione di questo anniversario ha ribadito anche il dramma economico che affligge il paese colpito anche dalle sanzioni contro il regime. La stragrande maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà: secondo il Programma Alimentare Mondiale della Nazioni Unite, prima della fine dell’anno circa il 97 per cento degli afgani vivranno con meno di 1,90 dollari al giorno (cifra stabilita dalla Banca Mondiale per la povertà a livello globale).
Un gruppo di trenta esperti dell’Onu ha lanciato un appello ricordando che le politiche talebane hanno significato la sistematica soppressione di una moltitudine di diritti umani, inclusi quelli all’istruzione, al lavoro, alle libertà di associazione. 16 milioni di bambini non hanno una dieta sufficiente né assistenza sanitaria. La recessione economica è assieme provocata dalle politiche del regime, e dalle carenze degli aiuti umanitari stranieri rispetto a due anni fa. L’assistenza è complicata dal fatto che le donne non possono più lavorare per le ong; fra quelle ancora presenti in Afghanistan a prestare per esempio supporto medico c’è Emergency. Eppure, 28,8 milioni di persone hanno bisogno di aiuto secondo Salma Ben Aissa, direttrice della Croce Rossa internazionale del paese: è il 60% in più rispetto al 2021.
Molte associazioni, come il Consiglio norvegese per i rifugiati, indicano la necessità di un piano di aiuti di lungo periodo. Continuare a sanzionare il regime, o aiutare la popolazione? Un dilemma a cui i talebani non sembrano in grado di offrire soluzione.

Il 15 agosto è festa nazionale. “Nel secondo anniversario della conquista di Kabul, vogliamo congratularci con l’Afghanistan mujahid (santo guerriero) e chiedere agli afgani di ringraziare Allah onnipotente per questa grande vittoria” ha dichiarato il portavoce Mujahid. “Ora che la sicurezza è garantita in tutto il paese, il territorio intero è gestito da una leadership unica, un sistema islamico è in funzione e tutto viene spiegato tramite la Sharia (legge islamica)”.
La resistenza, se c’è, è clandestina. Però a Kabul, scrive Al Jazeera, le misure di sicurezza oggi sono alte. A Herat, nell’ovest del paese, una folla di talebani ha scandito “Morte agli europei, morte agli occidentali, morte agli americani, lunga vita all’Emirato islamico dell’Afghanistan”. A Kandahar, seconda città del paese da dove il leade supremo Hibatullah Akhunzada governa per decreto, era prevista una parata militare che è stata annullata; ufficialmente “per non disturbare la quiete pubblica”.