Nel 1789, i francesi fecero la Rivoluzione e poi decapitarono il Re, e non se lo scordano; quando si tratta di protestare e far sciopero, nessuna massa popolare è più compatta e testarda in Europa. Il presidente Emmanuel Macron ha forzato la mano per far passare la sua riforma delle pensioni, e c’è riuscito, ma è una vittoria di Pirro.
Lunedì 20 marzo, il governo si è salvato per appena nove voti dalle mozioni di censura presentate in Parlamento, grazie ai deputati della destra moderata dei “Republicains”, che non fanno parte delle forze di governo. Ma oltre 19 dei 61 “repubblicani” hanno disubbidito all’ordine di scuderia e votato per la destituzione dell’esecutivo. La mozione presentata da un gruppo di centro aveva bisogno di 287 voti, ne ha avuti 278.
Il problema per Macron è che si trova ora in posizione assai indebolita: per approvare la legge (già passata dal Senato, ma rischiava grosso all’Assemblée Nationale, la camera bassa) ha deciso di ricorrere all’opzione nucleare: l’articolo 49 comma 3 della Costituzione, che gli consente di evitare il passaggio parlamentare.
Così la legge di riforma potrà essere adottata e i francesi dovranno aspettare due anni in più per andare in pensione: 64 invece di 62. In Italia, ci siamo già passati: dal 2019 l’età per la pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni per tutte le categorie – salvo casi specifici come i lavori usuranti o la “opzione donna” che comunque porta a un taglio dell’assegno mensile. Stesso limite di età, 67 anni, negli Stati Uniti a partire dai nati nel 1960 ottenere il 100% dei contributi versati (ma si può andare in pensione dai 62 con contributi ridotti e Medicare, il piano di salute pubblica per gli anziani, si applica dai 65 anni).

Sessantaquattro anni dunque potrebbe sembrare ragionevole tenuto conto dell’allungamento della vita media, ma non ai cittadini francesi: a cui resta il ricorso davanti alla Corte Costituzionale – e soprattutto un Referendum di Iniziativa Cittadina, che ha un iter amministrativo complicato e richiede la raccolta di quattro milioni di firme; ma le associazioni in rivolta si dicono certe di riuscirci.
La contestazione popolare, già vigorosa da settimane, ha toccato il culmine e non intende smorzarsi ora. Giovedì 23 marzo è annunciata una giornata di mobilitazione straordinaria: Mathilde Panot, capogruppo parlamentare della sinistra de “La France Insoumise”, parla di “un giorno storico per dire al presidente della Repubblica che anche noi non molleremo e che non si può fare un atto di forza contro tutto un popolo. Oggi stesso depositeremo il ricorso alla Corte Costituzionale”. Si sta inasprendo il blocco dei porti e delle raffinerie; ci sono già state manifestazioni violente con incendi e vetrine fracassate in varie città francesi (oltre 200 persone arrestate a Parigi lunedì notte). Secondo i sondaggi, 7 cittadini su 10 sono contrari alla riforma.
L’ultima grande mobilitazione in Francia fu quella dei cosiddetti “gilet gialli”, movimento nato nel 2018 contro l’aumento dei prezzi del carburante e l’elevato costo della vita; ma a quei lavoratori ora si aggiungono un movimento sindacale compatto e la discesa in piazza degli studenti. Così Edgar, 22 anni, dice all’agenzia France Presse: “C’è l’estremismo in piazza ma anche l’autoritarismo dello Stato che è ancora più forte. Ho paura per me quando vado in manifestazione, per i miei compagni, per i miei genitori, la paura è il primo sentimento che ho la mattina quando mi alzo e mi sembra gravissimo”.

Macron potrebbe cercare un capro espiatorio sacrificando la sua prima ministra, Elisabeth Borne (in Francia, repubblica semipresidenziale, il premier ha la responsabilità della politica interna, sebbene il capo dello Stato presieda anche il governo). Fonti dell’Eliseo, il palazzo presidenziale, fanno sapere però che il presidente non intende ricorrere a rimpasti. Parlerà invece alla nazione, ma non c’è molto da dire, considerando anche che ha contro metà del parlamento.
Emmanuel Macron è al suo secondo mandato – iniziato da meno di un anno – e non può ricandidarsi, ma ha comunque quattro anni da gestire davanti a sé; sarebbe per lui proritario recuperare almeno l’appoggio del sindacato più riformista, la CFDT (Confederazione francese democratica del lavoro). Il suo indice di popolarità è sceso al 20%, e l’applicazione dell’articolo 49 comma 3 è stata disapprovata fra le file del suo partito “Renaissance”, ma anche dai suoi alleati parlamentari, il centrista “Modem” e la destra moderata di “Horizontes”. Potrebbe farsi tentare da un’alleanza con i “Republicains” che l’hanno salvato dalla mozione di censura, ma in questo caso il suo governo si sposterebbe a destra.
Negli Stati Uniti si parla di “lame duck”, anatra zoppa, per un politico in fine mandato che già conosce il nome del successore e si trova in condizione di debolezza. Macron non sa chi gli succederà, ma gli si prospettano quattro anni di guerra politica, in un paese che soffre la crisi economica. Potrebbe sciogliere le camere e convocare nuove elezioni politiche; si tratta però di un grosso rischio che nel clima attuale darebbe buone possibilità sia alla sinistra de “La France insoumise”, sia all’estrema destra di Marine Le Pen.
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