In un passo del Talmud – testo sacro dell’ebraismo – è scritto che sono tre le porte che conducono al Purgatorio, e che una di queste si trovi a Gerusalemme. Lo scenario che si presenta davanti al segretario di Stato statunitense Antony Blinken, arrivato nella città santa durante la sua tre-giorni in Medio Oriente, è però molto più simile a un inferno.
A dimostrarlo è il tragico attentato avvenuto lo scorso sabato davanti a una sinagoga di Gerusalemme Est, costata la vita a 7 fedeli. Solo uno dei tanti tasselli del puzzle israelo-palestinese, la cui recente ed ennesima escalation ha riavvampato le fiamme di un conflitto pluridecennale, riemerso in tutta la sua inestricabile crudezza.
Sbarcato domenica al Cairo, lunedì il capo della diplomazia USA ha incontrato proprio a Gerusalemme il premier israeliano Benjamin Netanyahu, al quale ha ribadito l’impegno di Washington affinché “palestinesi e israeliani godano di pari misure di libertà, sicurezza, opportunità, giustizia e dignità”. “Stiamo esortando tutte le parti ad adottare misure urgenti per ripristinare la calma e smorzare le tensioni”, ha detto Blinken, il quale è tornato poi a caldeggiare la soluzione dei due Stati come “la maniera migliore” per mettere in sicurezza la regione.
A fare rumore nella conferenza stampa congiunta, però, è stato il silenzio di Netanyahu proprio sulle proposte di compromesso statunitensi. Dopotutto, il capo di Governo israeliano politicamente più longevo di sempre è a capo di un esecutivo composto da ultra-conservatori e ortodossi che non solo rigettano l’idea di uno “Stato palestinese” in sé, ma spingono con veemenza per la colonizzazione dei territori contesi – ossia ritenuti di sovranità palestinese dalle autorità di Ramallah.
L’israeliano ha preferito piuttosto concentrarsi sulla minaccia iraniana, che Tel Aviv ritiene la sua massima priorità di politica estera al momento (per questa stessa ragione il Mossad, la scorsa domenica, ha ordito un attacco con droni-kamikaze contro un deposito di munizioni degli ayatollah).

Meno di 24 ore dopo, martedì, il segretario di Stato è quindi volato nell’epicentro dell’escalation – la Cisgiordania, dove solo a gennaio circa 30 palestinesi sono stati uccisi da soldati israeliani. A Ramallah l’incontro con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che è stato rassicurato sul fatto che l’amministrazione Biden ritenga la soluzione dei due Stati un punto cardinale della sua strategia diplomatica – senza tuttavia aggiungere dettagli su come arrivarci.
L’amministrazione Biden d’altronde appare troppo assorta a rispondere dall’invasione russa dell’Ucraina per dare priorità al riavvio del processo di pace israelo-palestinese. Non aiuta certo la condotta dei due litiganti. La scorsa settimana, la Palestina ha deciso di ridurre ai minimi termini la cooperazione con le forze di sicurezza di Tel Aviv – in protesta contro un raid israeliano a Jenin che ha provocato la morte di 10 palestinesi.
Pesa infine anche l’ambiguità di Washington, che ufficialmente considerano gli insediamenti israeliani abusivi ma che legalmente continuano a non ritenerli “illegittimi” – sulla falsariga di quanto deciso dall’amministrazione Trump. Al che si aggiunge l’ulteriore ambiguità sul trasferimento (o meno) dell’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, osannata dagli israeliani e osteggiata dai palestinesi.
Dal Purgatorio al Paradiso, insomma, la strada è ancora lunga.