Finito il conteggio delle schede in Israele, dalle urne è emerso un nuovo/vecchio vincitore: si chiama Benjamin Netanyahu ed è il leader più longevo nella storia dello Stato ebraico (15 anni e 92 giorni).
Netanyahu, che poco più di un anno fa era stato defenestrato sulla base di accuse di corruzione, si appresta così a tornare alla residenza ufficiale di Beit Aghion dopo che la stessa opposizione che lo aveva rimosso con manovre di palazzo (quelle tra Naftali Bennett e Yair Lapid) si è rivelata in capace di dare a Tel Aviv un governo e una maggioranza stabili.
Nelle prime dichiarazioni post-vittoria, il leader conservatore ha promesso che non userà la sua carica per far naufragare il processo per corruzione attualmente pendente sul suo capo. Tuttavia, alcuni componenti della sua coalizione hanno dichiarato che lavoreranno per far depenalizzare uno dei reati di cui è accusato “Bibi”, oppure per far archiviare il caso tout court.
Netanyahu potrà comunque contare alla Knesset (il parlamento unicamerale israeliano) su una maggioranza insolitamente stabile: almeno 64 seggi su 120, che comprendono i 32 vinti dal Likud, in aggiunta agli scranni ottenuti dai suoi alleati di estrema destra del Partito Sionista Religioso (14), dagli ultra-ortodossi di Shas (11) e dagli ebrei aschenaziti di Ebraismo della Torah Unito (7).
Ed è proprio l’inversione a destra che intimorisce la comunità internazionale e la società civile israeliana, timorosa che la vittoria degli ultra-religiosi costituisca l’inizio di una nuova escalation con le autorità palestinesi. A rischio sono però anche i rapporti con Washington, dato che tra Biden e Netanyahu non è mai scorso buon sangue – differentemente dall’amicizia che legava il leader israeliano a Donald Trump.
Sin dal suo insediamento alla Casa Bianca, Biden ha infatti chiarito di ritenere prioritario un nuovo accordo sul nucleare con l’Iran, che al contrario Netanyahu (e i suoi successori) hanno ripetutamente cercato di minare. Il regime degli ayatollah è difatti nemico giurato di Tel Aviv, che diffida di Teheran e teme che l’arricchimento dell’uranio per “scopi pacifici” nasconda in realtà ambizioni atomiche.

Ma le divergenze non si fermano qui: l’amministrazione dem è inoltre a favore della creazione di uno Stato palestinese ed ha più volte condannato l’edificazione di insediamenti israeliani in territorio palestinese.
Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, i tiepidi rapporti tra Washington e Tel Aviv sono stati poi ulteriormente complicati dal rifiuto dello Stato ebraico di unirsi alla coalizione occidentale anti-russa, preferendo piuttosto fare da ponte tra i due schieramenti (assieme alla Turchia). Una posizione mantenuta anche a fronte del coinvolgimento nel conflitto da parte dell’arcinemico iraniano attraverso la fornitura di droni-kamikaze alle truppe di Mosca.
Nonostante i dissidi, però, Tel Aviv non sembra comunque poter divincolarsi dalla necessità (storica e geopolitica) di mantenere solidi rapporti con Washington. Anche se più di un osservatore ritiene che, a due anni dalle elezioni presidenziali USA, qualcuno ad Israele abbia già un candidato preferito.