Le cronache del tempo riportano che la neve cadesse copiosa su Viskuli l’8 dicembre del 1991. Un piccolo paesino di frontiera bielorusso, a una manciata di chilometri dalla Polonia, divenne per un giorno l’epicentro di uno dei principali avvenimenti geopolitici del XX secolo: la fine dell’Unione Sovietica. Quella che per più di mezzo secolo era stata la nazione più estesa al mondo fu consegnata ai libri di storia dalle tre firme di Boris El’cin (Russia), Leonid Kravčuk (Ucraina) e Stanislaŭ Šuškevič (Bielorussia). Il sogno di esportare la rivoluzione marxista-leninista, già accantonato da Stalin, tramontava definitivamente assieme a tutto l’apparato istituzionale sovietico.
A dire il vero, nei mesi precedenti a dichiararsi sovrani avevano già provveduto i tre Stati baltici e l’Azerbaigian nonché, poco alla volta, tutte le altre repubbliche sorelle. Ancora prima era caduto il muro di Berlino e le truppe di Mosca si erano ritirate a capo chino dall’Afghanistan. Ad infiacchire l’URSS erano state anche le politiche di glasnost’ (pubblicità) e perestrojka (ristrutturazione) perorate da Michail Gorbačëv, eletto segretario generale del PCUS nel 1985. Le riforme gorbačëviane erano state appunto concepite per modernizzare l’URSS e introdurla al nuovo millennio, ma finirono fatalmente per accelerarne l’inesorabile fine: venute meno le premesse del rigido controllo centrale e della censura capillare, il collante che aveva tenuto insieme le quindici repubbliche sovietiche si squagliò come neve al sole.
Il nuovo corso fu esemplificato dall’atteggiamento di Mosca nei confronti della Lituania, dove in seguito alla proclamazione d’indipendenza venne abbozzato un intervento militare sulla falsariga di quello che aveva stroncato nel sangue la “primavera di Praga” nel 1968. Lo stesso Gorbačëv si rese conto che insistere militarmente sarebbe stato un errore anacronistico, preferendo invece battezzare la via diplomatica. Nell’estate del 1991 elaborò così un “nuovo trattato dell’unione” (“nuovo” rispetto al “vecchio” trattato che aveva dato vita all’URSS nel 1922) per salvare quello che già allora pareva politicamente un malato terminale. Tra le novità, la libera ed effettiva possibilità di secedere dall’URSS da parte dei singoli Stati.
Meno di 24 ore prima della cerimonia di firma, però, il vecchio establishment comunista decise di sparare (letteralmente) le ultime cartucce rimaste per salvare quello che rimaneva dell’Unione dalle spinte indipendentistiche e dal riformismo di Gorbačëv. Il colpo di Stato, passato alla storia come putsch di agosto, fu un atto di disperazione neutralizzato nel giro di tre giorni: i burocrati comunisti non avevano fatto i conti con il secco net del presidente russo El’cin, di grossa parte dell’esercito e, soprattutto, della popolazione. Ad uscirne mal ridotti furono tanto il PCUS quanto Gorbačëv, entrambi i quali avrebbero peraltro terminato la loro carriera nel giro di poche settimane.
L’8 dicembre non si fece dunque altro che ratificare nero su bianco quello che ormai era diventato ufficiale nei fatti: la cessazione dell’esistenza dell’URSS “come soggetto di diritto internazionale e come realtà geopolitica”. La cornice scelta fu quella della foresta di Belaveža, anche se ufficialmente gli accordi risultano sottoscritti nella capitale Minsk. I tre sottoscrittori furono i capi di Stato di Russia, Ucraina e Bielorussia, che si sostituirono al segretario generale sovietico Gorbačëv (che avrebbe perciò potuto farli arrestare per sedizione) per rimpiazzare l’URSS con una neo-nata Comunità di Stati Indipendenti (CSI). Una fratellanza di Stati sovrani – la CSI – prendeva il posto di un sovrano di Stati fratelli – l’URSS. Due settimane più tardi, altre otto repubbliche (ex-)sovietiche si unirono alla CSI attraverso i Protocolli di Alma-Ata, cantando il definitivo de profundis dello Stato che per metà secolo aveva tenuto testa a Washington.

Nelle sue memorie, Gorbačëv si sarebbe scagliato pubblicamente contro i tre di Belaveža, accusandoli di aver ragionato seguendo logiche di “lotta di potere e interessi personali”. Il premio Nobel per la pace se la sarebbe presa in particolare con il presidente russo El’cin, reo di aver sabotato l’ultimo ed estremo tentativo di mantenere in vita l’URSS per diventare il nuovo padrone della Russia.
Effettivamente, quella notte di Natale del 1991 in cui Gorbačëv concludeva la sua carriera politica e la bandiera con falce e martello veniva rimossa dal Cremlino, El’cin prendeva simbolicamente lo scettro di “unico re” a Mosca. Non passò però molto prima che si trovasse di fronte a un’economia disastrata da anni di pianificazione inefficiente. La soluzione di El’cin fu ricorrere a una “terapia d’urto” post-traumatica fatta di privatizzazioni, liberismo e laissez-faire, che spianò la strada a un’accozzaglia di oligarchi dalla dubbia reputazione e a un impoverimento epocale della popolazione. La situazione finì per sfuggire di mano pure allo stesso El’cin, la cui popolarità risentì enormemente della drammatica crisi finanziaria del 1998.
Così, il 31 dicembre 1999, un rassegnato El’cin si dimise e contestualmente ai russi venne presentato il nuovo presidente, un pietroburghese che prima di fare il primo ministro aveva lavorato per il KGB. Il suo nome era Vladimir Putin, che da quella notte di Capodanno divenne il vero uomo forte di Russia. Sin da subito, Putin sfruttò abilmente la sua immagine di pacificatore sociale, guadagnata nella guerra cecena, e rimpinguò le casse statali capitalizzando sull’aumento dei prezzi delle materie prime e del gas. La mossa si rivelò un successo e l’economia russa tornò sui binari della crescita sostenuta, facendo guadagnare a Putin livelli di popolarità (effettiva) da far impallidire anche gli statisti sovietici.
L’opinione di Putin proprio su Belaveža e sulla caduta dell’URSS in generale non lascia certo spazio a interpretazioni: “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”, ebbe a definirla il presidente nel 2005. Dal 1991 in poi, in effetti, lo spazio post-sovietico non sarebbe più stato lo stesso. Alcuni Stati hanno mantenuto un rapporto di collaborazione e amicizia reciproca con la Russia – principalmente la Bielorussia (specialmente dopo l’aiuto russo a Lukašėnka nel 2020), l’Armenia e gli Stati dell’Asia centrale. Una collaborazione che, per quanto approfondita, non è comunque lontanamente paragonabile alla coordinazione di epoca sovietica.
Dall’altra, si sono create anche “sorelle coltelli”, ovverosia nazioni che hanno compiuto un’inversione a U in senso marcatamente russofobo: tra queste non solo la Georgia – in cui il sentimento anti-russo ha raggiunto l’apice nella guerra-lampo del 2008 – ma anche l’Ucraina del post-2014. Altri ancora, invece, come l’Azerbaigian, sono stabilmente finiti nella sfera d’influenza di altre potenze regionali, ossia della Turchia.
Di “catastrofe” in senso putiniano si potrebbe peraltro parlare propriamente anche alludendo ai tanti conflitti che negli ultimi 30 anni hanno fatto scorrere fiumi di sangue negli ex confini dell’impero, dalla Cecenia al Nagorno-Karabakh, dal Donbass alla Georgia.
Vale quindi la pena ricordare la celebre risposta che Zhou Enlai diede quando, nel 1972, gli fu chiesto cosa ne pensasse dell’impatto della Rivoluzione francese: “Troppo presto per stabilirlo”. Troppo presto è forse anche per stabilire le conseguenze del collasso di un gigante dai piedi d’argilla che per mezzo secolo ha fatto tremare mezzo mondo.