A nessun Paese al mondo più della Russia pare calzare meglio quel vecchio adagio clausewitziano secondo cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Nel caso di Mosca, anche la sola minaccia della guerra – come sperimentato nelle ultime settimane in Ucraina orientale.
Secondo le stime fornite venerdì scorso dal ministro della Difesa ucraino Oleksij Reznikov alla Verchovna Rada (parlamento unicamerale ucraino), le truppe russe ammassate nei pressi del confine con l’Ucraina ammonterebbero attualmente a 94.300 unità – potenzialmente più di 170.000 all’inizio del 2022. Di qui i timori diffusi di un’imminente invasione per completare quanto iniziato nel 2014 in Crimea. Preoccupazioni lanciate soprattutto dall’intelligence ucraina, ma poi suffragate dalle agenzie occidentali e dalla CIA.
Dal Cremlino finora non è arrivata che una mezza-smentita, che per converso è comunque una mezza-conferma. Pur ribadendo di non avere alcuna intenzione di invadere il vicino occidentale (tesi “isteriche”, secondo i russi), Mosca ha ribadito che non è tenuta a dare giustificazioni per i movimenti di truppe che avvengono all’interno dei confini nazionali russi – come effettivamente sono gli ammassamenti. Il Cremlino ritiene invece che l’allarmismo ucraino sia una mossa in mala fede orchestrata proprio da Kiev e da suoi alleati occidentali per giustificare un attacco preventivo al confine con la Russia.

Una cosa è comunque certa, ossia che era almeno dallo scorso aprile che non si assisteva a una concentrazione così massiccia di truppe e accampamenti militari russi a poche centinaia di chilometri dal Donbass. Anche allora si era paventata la guerra, in una situazione resa estremamente critica dalle ripetute violazioni del cessate il fuoco nell’est ucraino tra esercito regolare di Kiev e indipendentisti filo-russi. Dopo giorni di apprensione, il conflitto fu fortunatamente evitato, ma l’attenzione militare è rimasta altissima. Ed è forse questa la prima chiave di lettura dei movimenti di truppe russi: non un fenomeno episodico, non una preparazione a una guerra imminente. Piuttosto, una risistemazione stabile delle forze sul medio-lungo periodo. Il ragionamento di Mosca sembra essere nei fatti un contrappasso ai movimenti speculari della NATO: se gli occidentali dispiegano stabilmente battaglioni vicino ai confini russi nei Baltici – ragiona il Cremlino –, allora la Russia può fare benissimo lo stesso al confine con l’Ucraina.
Oltre al contrappasso, il messaggio di Mosca sembra anche essere di natura preventiva: per i russi, la prospettiva di un futuro ingresso dell’Ucraina nella NATO non è un’opzione tollerata o tollerabile. Le truppe al confine servono proprio a chiarire che, nel caso l’Occidente dovesse fraintendere il significato di “linea rossa”, l’extremissima ratio sarebbe di natura quasi sicuramente militare. Il presidente ucraino Zelens’kyj non ha mai nascosto l’ambizione di Kiev di entrare a far parte dell’alleanza atlantica. Ciò le consentirebbe di incassare una solida garanzia sulla propria sicurezza nazionale, dato che tra alleati NATO vale la regola della mutua difesa obbligatoria (art. 5 del Trattato) – che obbliga a intervenire militarmente in aiuto degli alleati aggrediti. Un attacco russo a un’Ucraina membro NATO equivarrebbe pertanto a scrivere la prima pagina del terzo conflitto mondiale.
Biden – che oggi ha parlato con Putin a telefono proprio sull’escalation ucraina – ha avvertito che l’eventuale ingresso di Kiev nella NATO è una questione che verrà decisa a Kiev, Washington e Bruxelles, ma non a Mosca. Ma formule di cortesia diplomatica a parte, è improbabile che gli ucraini vengano accolti nel club a breve: estendere la garanzia della mutua difesa all’Ucraina non solo innalzerebbe a livelli critici (e potenzialmente apocalittici) il livello dello scontro con la Russia, ma di fatto creerebbe una nuova cortina di ferro in Europa tra NATO e Russia-Bielorussia.

Putin sembra aver così sposato la massima di Vegezio: “Si vis pacem, para bellum”. Ovverosia, “se cerchi la pace, prepara la guerra”. Da una parte il Cremlino ammassa un numero di truppe al confine capace di superare agevolmente la resistenza ucraina – senza premurarsi di camuffare gli spostamenti, appunto in un’ottica di esibizione di superpotenza militare. Dall’altra, la sua diplomazia lavora per costringere gli occidentali a firmare “garanzie legali” rispetto a due prospettive su cui il Cremlino non transige: l’ingresso formale dell’Ucraina nella NATO, oppure anche il “solo” uso del territorio ucraino per scopi militari anti-russi (ad esempio ospitando basi militari NATO e/o statunitensi).
Non è comunque da escludere che, in caso di fallimento delle trattative, la Russia possa lanciare effettivamente un attacco-lampo nell’est dell’Ucraina – un’invasione del Paese tout court è un’ipotesi tanto controproducente da sembrare al limite della pazzia – o cerchi di esercitare la sua influenza sulle truppe filo-russe nel Donbass affinché continuino una guerra sotterranea contro Kiev per logorarla. Essendo piuttosto improbabile una risposta militare della NATO, in quel caso sarebbe probabile un nuovo giro di sanzioni che isolerebbe ancora di più la Russia sullo scenario internazionale e la condannerebbe sempre più all’autarchia finanziaria e a guardare commercialmente all’Oriente (Cina).
Ciò premesso, l’ipotesi di un conflitto convenzionale Kiev-Mosca rimane a oggi una prospettiva piuttosto remota. La presenza russa al confine serve piuttosto, e soprattutto, a far capire che Mosca non scherza sulle proprie linee rosse. E che è pronta a tutto – ma proprio tutto – per difenderle.