È una giornata insolitamente temperata a Morningside Heights, Upper Manhattan, nel cuore di New York. I raggi di sole tardo-autunnali illuminano timidamente il campus della Columbia University sulla 116ª strada, dopo giorni di neve e vento alternati al nuvoloso grigiore metropolitano.
Sembrerebbe quasi una bella mattinata primaverile, non fosse per le bandiere a mezz’asta che sovrastano l’imponente biblioteca in stile romanico, e qualche telecamera di media locali appostata accanto agli studenti che camminano a passo svelto verso le aule ascoltando musica dai loro AirPods.
Sembra difficile pensare che proprio a pochi isolati da qui, più precisamente tra la 123ª e Amsterdam Avenue, uno studente italiano di ritorno da un allenamento di calcio sia stato brutalmente accoltellato allo stomaco e ucciso.
Il nome della vittima è Davide Giri, trentenne nato ad Alba, in provincia di Cuneo. Era dottorando di ricerca in scienze informatiche dopo essersi laureato in ingegneria elettronica al Politecnico di Torino e all’Università dell’Illinois.
Il presunto assassino, identificato dalla polizia nel venticinquenne afroamericano Vincent Pinkney (pregiudicato con alle spalle undici arresti, di cui uno per tentato omicidio tre anni fa), si sarebbe poi accanito su un altro passante, anche lui casualmente italiano: il ventisettenne Roberto Malaspina, da poco arrivato nella Grande Mela come turista-ricercatore. Lui, per fortuna, è fuori pericolo, ma la ferita (specialmente quella psicologica) tarderà a guarire.
Alla Casa Italiana della Columbia University, La Voce di New York contatta Barbara Faedda, direttrice esecutiva dell’Italian Academy for Advanced Studies in America, che esprime così il suo cordoglio: “Davide Giri era un giovane brillante scienziato italiano, pieno di competenze e curiosità intellettuali e culturali. L’Italian Academy – e tutta la comunità che comprende e raggiunge – è profondamente addolorata. Si tratta di una perdita gravissima per la Columbia, l’Italia e la città di New York; un pensiero sincero alla famiglia, ai colleghi e agli amici di Davide”.
Non tutti però nel campus accettano di parlarci, spesso preferendo non commentare l’accaduto. Le motivazioni sono varie: c’è chi è ancora visibilmente scosso, chi ne sa poco (o preferisce non sapere) e chi invece sembra aver paura di esporsi troppo.
Tra queste ultime una studentessa cinese, che ci chiede di non rivelare il suo vero nome e di non fotografarla. È giovane e dimostra più o meno venti anni, ma le sue parole colpiscono per la schiettezza: “Non mi sono mai sentita particolarmente al sicuro in questo quartiere, ma paradossalmente oggi (con la presenza di pattuglie e il faro dei media puntato, NdA), lo sono molto di più”. Non è in alcun modo pentita di aver scelto New York e la Columbia per i suoi studi, ma ammette di essere consapevole che “qui bisogna tenere costantemente gli occhi aperti”.
Nel frattempo, ci imbattiamo quasi per caso nel genovese Ludovico, 27 anni, dottorando in storia dell’arte in Italia, che sentiamo parlare al cellulare in italiano. A differenza degli studenti del campus, a cui la notizia è stata comunicata via mail, è inizialmente all’oscuro di tutto. Quando lo informiamo si dice francamente dispiaciuto, ma non vuole generalizzare: “Può capitare ovunque nelle grandi metropoli, non solo a New York” – anche se poi ammette di fare particolare attenzione e di non sognarsi nemmeno di frequentare alcune zone a rischio, specialmente di notte (su tutte Central Park e aree circostanti).
Non gli si può dar certo torto: oltre al duplice attentato della scorsa notte (prime luci dell’alba di venerdì in Italia), che in realtà è quadruplice perché l’attentatore ha offeso anche un’altra coppia sinora rimasta anonima, la zona a nordovest di Central Park è tristemente coperta di sangue. A pochi metri dal luogo del decesso del dottorando italiano, nel 2019 aveva perso la vita la diciottenne Tessa Majors, anche lei ripetutamente accoltellata durante una tentata rapina.
Crystal la conosceva bene Tessa, vivevano negli stessi alloggi universitari. Undergraduate student alla Columbia, ci dice: “Quando cala il sole, quest’area diventa inquietante, con una sensazione diffusa di insicurezza. Spero che la Columbia faccia il possibile per mantenerci al sicuro”, dice Crystal celando a stento la preoccupazione.
Dopo essere entrati in confidenza, si lascia sfuggire una piccola critica proprio nei confronti dell’università: “È una questione complicata quella della sicurezza alla Columbia, soprattutto perché non si vuole finire per stigmatizzare la vicina comunità di Harlem (uno degli storici quartieri afroamericani di New York NdA).
A scanso di equivoci, quella della violenza non è certamente una questione che riguarda un solo quartiere, un dato colore della pelle o un’etnia. Il problema sicurezza a New York ha radici pluridecennali e tocca da vicino praticamente tutti e cinque i boroughs. Povertà in aumento, instabilità psicologica, scarsa presenza delle forze dell’ordine, oltre ovviamente alla presenza di gangs violente come la Ebk di Pinkney, sembrano essere i minimi comuni denominatori del problema. “Sono già attivi alcuni corsi di sicurezza personale all’interno del campus”, e azzarda una previsione: “Dopo i fatti di ieri credo diventeranno ancora più popolari”.
Poco più tardi ci raggiunge Eleonora Francica, romana, ventiquattrenne graduate student di giornalismo alla Columbia e già collaboratrice della Voce di New York. “Come studentessa e cittadina italiana mi sono sentita coinvolta in prima persona, è stato uno shock enorme pur non conoscendo il ragazzo”. Rivela che, istintivamente, la prima cosa che ha fatto dopo aver appreso dell’accoltellamento, stamattina, è stata chiamare il suo ragazzo e i suoi genitori in Italia.
Anche lei a caldo lascia trasparire un comprensibile misto di tristezza e rabbia: “Aggressioni del genere ormai sono all’ordine del giorno, succede qualcosa almeno una volta a settimana”. Cosi si chiede retoricamente: “Dov’è la polizia? Lo sanno tutti che questa zona in certi orari diventa terra di nessuno, in particolare tra la 123ª e Amsterdam”.
Ammette che la Columbia, tramite newsletter interna, si premura di mantenere costantemente al corrente la comunità studentesca sulla “cronaca nera”, invitando alla prudenza. Ma anche lei, come già Crystal, non lesina critiche all’università su una certa ambiguità nell’evidenziare adeguatamente le aree e i fattori di rischio, e su quella che definisce addirittura una specie di “omertà” su temi e questioni potenzialmente divisive.
Quando infine le chiediamo se l’episodio cambierà il suo modo di comportarsi in città, annuisce vistosamente e aggiunge: “Certamente! Qualche settimana fa, ad esempio, ho attraversato da sola Central Park intorno a mezzanotte per accorciare dall’Upper West Side all’Upper East Side. Oggi certo non mi sognerei più di farlo!”.
Rania, studentessa 22enne da Dubai, si allontana per qualche secondo dal gruppo di colleghe e raggiunge i nostri microfoni: “Sono scioccata, stavamo giusto discutendo con alcune amiche sulla criticità della sicurezza dentro al , e soprattutto fuori dal, campus”. “Anche se i media dicono che il luogo del delitto è vagamente ‘vicino al campus’, la verità è che ne è parte integrante, ci andiamo a lezione, ci abitano i nostri amici lì”.
Merrick, studente di architettura originario di Houston, è meno sorpreso: “La notizia ha scosso un po’ tutti ma bisogna tenere conto del fatto che questa è New York, dove è richiesta attenzione dappertutto, specie di notte”. Subito dopo interviene il suo amico Carlos, di Miami: “In realtà per me quest’area non è nemmeno poi troppo pericolosa, come dicono. Noto sempre un bel po’ di polizia in giro”.
Gli ultimi due intervistati sono Tyler, ventiduenne studente di matematica originario di Los Angeles, e Thomas, ex militare sulla quarantina proveniente da San Diego ma nato in Texas.
“Logicamente non mi aspettavo che accadesse qualcosa di così drammatico, ma sanno tutti che l’area non è delle più sicure”, dice Tyler. “L’università”, aggiunge, “non può certo consigliare di evitare certi posti, perché a quel punto verrebbe probabilmente tacciata di discriminazione”. A suo avviso, però, la situazione ora è comunque di gran lunga migliore di quanto fosse durante il lockdown, quando non era insolito “incontrare gruppi di tossicodipendenti dentro e fuori la metropolitana”, e New York sembrava ripiombata nei primi anni ’80.
Thomas invece si rifà agli insegnamenti ricevuti nell’esercito: “Quando frequenti un posto con una certa assiduità, come facciamo noi studenti qui, diventa fisiologico abbassare la guardia, ed è proprio allora che arrivano i guai”. Dietro la sicurezza di chi ha militato nell’esercito per 23 anni ed è stato dispiegato in vari scenari bellici, salutandoci si lascia però andare a una battuta dal sapore amaro: “Comunque mi sa che tratti a piedi ne farò pochi, da oggi in poi prendo la metropolitana”.