COVID-19 Andamento 25-31 maggio 2020
lunedì 1 giugno, h. 07:15 a.m. EST
Lo sviluppo della pandemia da virus Corona-19 può, stamane, essere riassunta nei seguenti dati globali: totale dei casi positivi sinora registrati intorno a 6 milioni 250mila, totale dei deceduti intorno a 374.500, numero delle persone attualmente positive quasi 3 milioni 55mila, numero dei guariti 2 milioni 860mila.
Si deduce che, nei primi cinque mesi di attacco, in termini globali, su 100 persone positive al virus Corona-19, 6 sono morte e 46 guarite. L’altra metà dei positivi sta combattendo il subdolo male.
La ripartizione per macroregioni fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, Oms, a questo momento, mostra che il continente americano ha il più alto numero di casi confermati, seguito dall’Europa che, però continua, di settimana in settimana, ad accrescere la sua distanza in fatto di positività rispetto alle Americhe. La forbice Europa-Americhe che era pari a 148mila unità due settimane fa, ed era a 331mila unità la scorsa settimana, è a 675mila unità: una progressione che sa di raddoppio settimanale. Si spiega con il quasi generale miglioramento europeo, al quale si oppone il consolidamento del quadro statunitense e il netto peggioramento latinoamericano, in particolare brasiliano. Le Americhe costituiscono ora poco più del 45% dei casi confermati; sommati agli equivalenti europei rappresentano insieme più del 79% dei positivi mondiali.
Si aggiunga, come mostra la tabella riassuntiva della situazione di domenica sera, che i positivi mondiali sono pari a 800 persone ogni milione di abitanti della Terra, 8 ogni 10.000.
Tenendo in conto che la presente risulterà l’ultima rassegna settimanale dell’evoluzione di Covid-19 (le tendenze statistiche della cosiddetta prima ondata danno orientamenti che possono essere considerati definitivi, il che consiglia di osservare piuttosto taluni effetti politici, economici e sociali indotti dalla pandemia), si riassumono di seguito alcune sintesi sulle evidenze risultanti da più di tre mesi di contabilizzazione.
In termini globali risalta che nel periodo metà marzo-maggio:
- i positivi totali contabilizzati dai sistemi pubblici nel mondo sono passati da circa 300mila a più di 6 milioni, un incremento di 20 volte;
- i decessi totali contabilizzati ufficialmente sono passati da 13.000 a più di 350.000, un incremento di 27 volte;
- che quindi, sinora, il numero dei morti, in proporzione si è intensificato (anche se, si aggiunge, questa distanza tendenzialmente dovrebbe rientrare;
- si è alzata del 50% la percentuale di decessi sul numero dei positivi, che era sotto il 4% in termini globali e che ieri sera superava il 6%, un dato che, con un occhio alle tabelle che seguono, si è ripetuto nell’intera settimana. Come analizzato in precedenti commenti, la percentuale è molto probabile che sia già da collocarsi ad almeno il 7%.
Per quanto riguarda i casi considerati nelle tabelle alle quali fa riferimento la rubrica, si evidenziano alcuni fenomeni come bilancio di tre mesi di situazioni i cui spostamenti quotidiani sono stati settimanalmente documentati:
- gli Usa si sono collocati da aprile al primo posto in tutti i dati assoluti esposti in tabella, e al secondo in quanto a deceduti per milione di abitanti, dopo la Spagna. Come può dedursi dal confronto fra la tabella di lunedì 25 maggio e di ieri domenica, nella scorsa settimana la federazione americana ha leggermente migliorato il rapporto tra decessi e casi confermati;
- il Canada è stato paese relativamente poco colpito dal virus Corona-19, ma ha lasciato lievitare di continuo il rapporto tra decessi e casi conclamati, alzandolo dall’1,4% del 20 marzo a 4,58% il 20 aprile, a 6% a fine aprile, per superare l’8% un mese dopo (v. il salto tra 30 maggio e domenica). Ciò accade perché sale il numeratore (il numero assoluto delle vittime), che va oltre quota 7.300 stamattina EST mentre non superava 6.500 una settimana fa, con decessi quotidiani nella settimana intorno alle 100 unità e il picco 121 di mercoledì 27 (v. tabella);
- anche Francia, Italia e Regno Unito manifestano un alto numero di decessi rispetto ai casi confermati, superati solo dal piccolo Belgio che, nonostante tendenzialmente stia stabilizzando la percentuale di decessi sui positivi confermati (v. per la discesa, anche la tabella di giovedì), resta il paese con la più alta percentuale tra quelli in tabella;
- la Spagna fa meglio in quanto a decessi su infetti abbassando di continuo la sua curva, ma da due mesi denuncia la quota più elevata di casi confermati sulla popolazione, incrementandola di giorno in giorno (questa settimana, da 5.985 di lunedì a 6.070 di ieri domenica, per milione). Il paese iberico, peraltro, per la seconda settimana consecutiva documenta confusione nella fornitura di dati, al punto da non consentire alla rubrica di riempire in modo regolare e verosimile le caselle di riferimento, nonostante una specifica revisione effettuata lunedì nel trasporto dati dalla settimana precedente. Per un esempio, martedì sera le autorità hanno rivisto il numero dei deceduti, alzandolo di quasi 300 impreviste unità, solo 35 delle quali scaturite da eventi recenti;
- in proposito, si ribadisce che diversi paesi continuano a fornire dati poco convincenti, anche perché non apportano a sostegno di cifre incongruenti, né interventi taumaturgici né cure salvifiche. A suo tempo osservazioni furono qui avanzate sui dati forniti da Iran, Turchia, India: qualche problema ora lo pone la Russia il cui alto numero di guariti non spiega il basso numero di decessi rispetto sia alla massa di infetti che ai positivi tuttora in corso;
- il miglior risultato in tabella lo espone la Germania, arrivata a meno di 10mila positivi attuali
e con il numero percentuale più basso di positivi confermati rispetto alla popolazione;
- dell’Italia non può dirsi altrettanto. Non solo ha il terzo numero di decessi al mondo, ma, come evidenziato, ha un rapporto altissimo tra decessi e malati. Inoltre, essendo stata, dopo la Cina, il primo paese a infettarsi in modo consistente, è in ritardo strutturale nell’abbassare la curva degli attualmente positivi e quella dei decessi quotidiani. Alla luce di questa considerazione, c’è da sperare che in Italia l’ulteriore riapertura che da mercoledì 3 consentirà una serie di attività sinora impedite o limitate, non comporti il rilancio di un’infezione che in Italia non può dirsi ancora conclusa.
L’auspicio riguarda soprattutto la Lombardia, e in parte il Piemonte, dove si danno tuttora molti casi confermati e decessi, seppure con numeri assolutamente inferiori a quelli dei drammatici picchi degli scorsi mesi.
Il virus, tuttora ampiamente sconosciuto alla scienza, resta in agguato, come mostra quanto sta accadendo in Olanda, il piccolo paese europeo che, pur avendo avuto un numero di contagi, 46.442. e decessi, 5.956, relativamente contenuto per una popolazione che supera 17 milioni 200mila abitanti (niente a che spartire con i più alti numeri del confinante Belgio), deve ora vedersela con gli sviluppi di una vicenda che l’ha colto di sorpresa.
Si tratta del contagio di Covid-19 da parte di visoni d’allevamento, sul personale che li accudisce in quattro fattorie del Brabante in Olanda, primo caso in aprile vicino Eindhoven. I casi della scorsa settimana sembra si sommino ad altri che sarebbero occorsi in senso opposto. La sequenza del genoma del virus di visoni e umani risultati positivi, appare molto simile. Per ora non c’è rischio di contagio sul territorio, visto che il virus non compare nell’aria esterna alle fattorie: tuttavia le autorità sanitarie hanno consigliato di stare alla larga, fissando, per pedoni e biciclette, il limite di 400 metri di distanza di sicurezza. Il governo ha disposto tamponi obbligatori al personale e proibito, in attesa dei risultati, il trasporto dei visoni. I gatti che bazzicano le fattorie sono anch’essi infetti, anche se (per ora?) lievemente. Godano comunque gatti e loro padroni: dei 20 casi felini di positività sinora ufficializzati nel pianeta, solo uno è poi risultato letale.
Da anni etologi, moralisti, scienziati e attivisti pro-vita, avvertono che le attività con animali selvatici, in cattività e non, sono a rischio di trasmissione del virus corona, la cui dinastia è così ricca da non temere riproduzioni, variazioni, e conseguenti numerazioni umane le più varie. Vale la pena ricordare che nel 2018 EcoHealth Alliance, che ha tra i compiti l’esame delle malattie emergenti da contatto umano con la fauna selvatica, tracciò nel Guandong cinese l’azione di un virus Corona, passato dai pipistrelli ai maiali, che provocò un’epidemia di diarrea da HKU2 (Rhinolophus bat coronavirus HKU2), e la morte di quasi 25.000 maiali. In quel caso il virus, battezzato SADS-CoV, non transitò su umani, al contrario di quanto si racconta sia accaduto lo scorso autunno a Wuhan con i pangolini (formichiere squamoso), o più probabilmente con i cani procioni, infettati dai pipistrelli. Il contagio potrebbe essersi sviluppato per l’uso alimentare o, con maggiore probabilità come peraltro mostra il caso olandese, dalle fattorie che allevano animali selvatici per l’utilizzo delle pelli nella moda, pratica primitiva e obbrobriosa che viene negata da tempo all’interno dei paesi con più avanzata coscienza di quello che dovrebbe essere il rapporto tra specie diverse sul pianeta Terra.
Per tornare all’Olanda, la Corte costituzionale aveva disposto nel 2016 che entro gennaio 2024 dovessero chiudere i 140 allevamenti nazionali: i 90 milioni di euro in esportazioni annue di pelli spiegano il posticipo della scadenza, ma anche l’attuale infezione, visto che restano tuttora in funzione 128 fattorie, con circa 5 milioni di mustelidi in cattività.
A questo punto sembra quasi certo che ci si trovi di fronte al primo caso documentato di trasmissione da animale a uomo, attraverso l’azione dei piccoli mammiferi allevati nel sud olandese su lavoratori senza alcuna protezione specifica. La Cina, in quest’ambito, è da tempo sul banco degli accusati, insieme ad altri paesi asiatici, e negli ultimi anni nessun passo sostanziale è stato possibile. La comunità internazionale ne viene impedita dal boicottaggio degli Stati Uniti a molti tavoli della collaborazione multilaterale, il solo meccanismo che può produrre decisioni vincolanti sulla maggioranza degli stati.
Se sufficientemente tempestiva risulta la risposta olandese agli accennati casi del Brabante, non altrettanto, come ampiamente noto, fu a suo tempo l’iniziativa del sistema sanitario statunitense per il contenimento di Covid-19. In un’intervista a Pew Center, ha provato a spiegare come siano effettivamente andate le cose, al di là delle scelte/non scelte di Potus, Joshua M. Sharfstein, vice dean per i public health practice e community engagement a Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, già segretario di stato al Maryland Department of Health and Mental Hygiene, principal deputy commissioner della Fda, Food and Drug Administration e commissioner of health per la città di Baltimora. Ha puntato il dito sul ritardo nell’avvio dei test, illustrando la catena di circostanze che hanno generato il ritardo nel reperimento della risposta efficace.

In primissima fase l’enorme domanda di tamponi ha superato le capacità di risposta del sistema, nonostante i grandi sforzi fatti per corrispondere al bisogno. Tre i punti deboli sistemici individuati: i ritardi nello sviluppo dei kit per i test, la scarsa disponibilità di forniture critiche, le direttive poco chiare sui soggetti e le categorie da sottoporre a test.
In seguito all’autorizzazione per l’Emergency Use, Eua, del 4 febbraio, i Cdc, Centers for Disease Control and Prevention avevano correttamente sviluppato il test per identificare il virus. Nella settimana successiva alla dichiarazione dell’emergenza di salute pubblica da parte del Department of Health and Human Services, i test iniziali erano inviati agli stati, in lotti praticamente equivalenti. Si trattava di un primo errore perché gli stati avevano, e avranno successivamente, esigenze diverse. Anche peggio, i laboratori degli stati incontravano un problema inaspettato: uno dei reagenti chimici previsto per la “lettura” del tampone, poteva contaminare. Di conseguenza, i tamponi erano spediti alla sede centrale dei Cdc, ad Atlanta, il che allungava di giorni la disponibilità di notizie sull’esito dei tamponi.
Si arriva al 10 febbraio, quando Cdc notifica a Food and Drug Administration, Fda, la situazione, senza offrire soluzioni. Passano ancora due settimane e il 24 febbraio laboratori degli stati contattano Fda per essere autorizzati a sviluppare in proprio i test, pur nella consapevolezza che ciò sarebbe costato altro tempo.
Si evidenzia intanto un’altra criticità, anch’essa figlia di una posizione ideologica (cos’altro è accentrare in unico organismo il diritto dovere a produrre tamponi, invece di consentire, dietro protocolli ad hoc, che più fonti ne approvvigionino le strutture sanitarie?), anzi di una fissazione, quella anti-cinese. In un brodo propagandistico che definisce al vertice dello stato, il virus Corona-19 infezione “cinese”, i test sono inizialmente limitati a chi ha di recente viaggiato in Cina o ha avuto contatti con infetti arrivati dalla Cina, dimenticando che i virus non hanno passaporti, non fanno né politica né commercio internazionale, vogliono albergare in quanti più esseri umani sia loro consentito da ignoranza e pressapochismo o peggio. Aver sottovalutato l’elementare verità, ha significato autorizzare il virus nella sua versione americana, a diffondersi quanto più liberamente potesse e volesse in comunità esposte e indifese.
Il quadro comincia a cambiare il 29, a 15 giorni dalla dichiarazione dell’emergenza. Fda emette istruzioni aggiornate che consentono ai laboratori di fornire la validazione dei tamponi: questi possono ora effettuare tamponi senza autorizzazione, purché notifichino ai federali entro 14 giorni dall’avvio delle attività. Con quel meccanismo Fda arriverà ad autorizzare decine e decine di test.
Purtroppo, spiega Sharfstein, non era però cessata la penuria di reagenti adatti e di attrezzature chiave, ad iniziare proprio dai tamponi! Di fatto, ancora ad aprile, continuava l’incapacità sistemica di soddisfare il bisogno di procedere a tutti i tamponi necessari a bloccare il contagio in molte parti della federazione. E l’impossibilità toccava anche quelle categorie che Cdc aveva identificato come più a rischio nelle linee guida emanate il 24 marzo: i pazienti ospedalizzati e gli addetti sanitari con sintomi. Ma anche le persone con più alto rischio di sviluppo letale: gli anziani con sintomi, gli ospiti di lunga degenza e in comunità di ricovero. In fondo, ma citati, i cittadini di aree ad alta infezione e ospedalizzazione da virus, e gli operatori della distribuzione o comunque a contatto con vaste fette di popolazione.
Scelte politiche e pigrizie burocratiche hanno generato le premesse per un disastro sanitario senza eguali al mondo, che, come mostra la tabella di seguito, nonostante le evidenti situazioni di stabilizzazione e di regresso della virulenza, continua ad alzare il numero dei positivi e dei deceduti.
Ci si può legittimamente chiedere, alla luce dei limiti evidenziati da Joshua M. Sharfstein, se debba temersi che burocrazia e conflitti di competenze possano fare danni anche nella fase di riapertura in esecuzione in diverse parti degli Stati Uniti. L’esperienza europea consiglia, a garanzia che non vi sia l’ovunque temuta onda di ritorno, la pratica di almeno due misure: distanziamento sociale imposto, tracciabilità dei contatti fonte di contagio. In Usa non tutti gli stati e le grandi città sono favorevoli ad ambedue le misure, altri non sono comunque pronti ad applicarle, anche perché il meccanismo da mettere in piedi richiede, secondo più ricerche indipendenti, tra 100mila e 300mila nuovi lavoratori appositamente formati e più di 3,6 miliardi di dollari. Si parla di un “contact tracer” per ogni 1.000 persone. Per quanto è dato sapere, solo alcuni grandi stati, certamente California Massachusetts e New York stanno investendo milioni di denaro pubblico e filantropico e organizzando uomini e strutture per far fronte a quei 18/24 mesi che gli esperti prevedono necessari al fine di disporre dell’appropriata vaccinazione di massa. Il tracciamento via telefono pone seri problemi di privacy, come stanno verificando stati, come Colorado, Kansas, North Dakota e Rhode Island, che su quella tecnologia fanno affidamento.
Se i meccanismi funzionassero, si avrebbero le condizioni perché la vita associata e in particolare l’economia possano davvero ripartire. A questo proposito sono utili alcune considerazioni proposte dall’unità di analisi di The Economist, il settimanale britannico, che ha dedicato uno studio alla regionalizzazione della catena della fornitura cui starebbe spingendo Covid-19. Si parte dalla consapevolezza che l’economia globale sia altamente dipendente dalla Cina. In certi settori la quota cinese nel commercio globale supera il 50%. Ad esempio nei prodotti di telecomunicazione, già nel 2018, era cinese il 59% del commercio. L’opportunità cinese, per le multinazionali, è stata evidente sia come produzione che come fonte di domanda dei loro prodotti. Ma, affermano i ricercatori vicini a The Economist, come risultato di Covid-19 non solo è possibile che la globalizzazione si fermi, ma che vada in senso contrario, a causa della guerra commerciale cino statunitense e della crescita dei salari cinesi. Già prima di Covid-19, di fatto, molte multinazionali avevano ristrutturato la catena del valore, portando produzioni fuori dalla Cina, in particolare nel tessile, da sempre primo segnale delle nuove tendenze. Nella nuova catena della fornitura globale, potrebbero guadagnare altre localizzazioni asiatiche, in danno della Cina.
Fenomeni simili, che ritoccherebbero la catena della fornitura, dovrebbero accadere anche in altre filiere regionali, all’impronta di maggiore resilienza e autonomia decisionale. Se le Americhe e l’Europa riuscissero nell’innovazione, riproducendo quanto già fatto dalla filiera del lusso, ne deriverebbero più autonomia e margini di manovra, osservano gli autori, di fronte a possibili nuovi shock. Economist vede qualche difficoltà nel processo per il settore automotive, ma anche per esso conferma la virtuosità del passaggio dalla globalizzazione pura alla globalizzazione regionale, destinata a durare perché premierà in particolare i bisogni di immagazzinaggio e trasporto, e diminuirà ogni genere di rischio, ad esempio quelli legati ai tempi di produzione e approvvigionamento, sia per i prodotti intermedi che per quelli destinati al consumo. Si tratta di una teoria – si permetta per una volta l’autocitazione – che avanzavo vent’anni fa nel mio libro “Regionalismi economici e sicurezza” edito da Franco Angeli, indicando nel mercato produttivo e distributivo Ue il modello da seguire.
Per chiudere, un’avvertenza di servizio. Oms ha informato sul rapporto tra fumo e letalità del virus Corona-19. Premesso che ogni anno muoiono 7 milioni di persone per effetto diretto del tabacco e approssimativamente 1.200.000 per consumo indiretto, Oms osserva che l’aggressività del virus verso i polmoni è facilitata dalla debilitazione alla quale sono sottoposti dal tabacco, insieme a varie infermità respiratorie e spesso diabete. Oms ha osservato come già dopo 20 minuti dal cessare il fumo, la tensione arteriosa e la frequenza cardiaca elevata inizino a scendere. Dopo 12 ore il livello di monossido di carbonio nel flusso di sangue torna alla normalità. Entro le 2 e le 12 settimane successive migliorano circolazione del sangue e funzione polmonare. Entro nove mesi si riducono tosse e dispnea (respirazione alterata).